(Hydra Head Records, 2008)
1. Sleds
2. Igloo
3. The Echo Of Something Lovely
4. End Resolve
5. Hellmonk
6. This House Is Like Any Other World
7. Hillary
8. Ghost
9. Monks
10. 1, 2, 3
Il debutto omonimo dei Pyramids è un disco che non può non suscitare curiosità, per la sua difficile collocazione in un genere ben definito e per la difficoltà che chiunque è costretto a provare se vuole darne una descrizione comprensibile. E’ un opera che si posiziona sull’incerto confine tra genialità e assurdità, che vive di anime molto diverse tra loro è che ha proprio in questa strana convivenza di opposti umori il proprio punto di forza (ma il rischio che sia anche il punto debole è molto alto).
Parlare di post rock è troppo semplice, così come nelle parti più atmosferiche citare i Sigur Ròs è quasi superfluo; diremmo piuttosto che, nella musica dei Pyramids, su affreschi sonori di chiara ispirazione scandinava (soprattutto islandesi, si) si intrecciano trame di liquide chitarre shoegaze sorrette da un drumming nervoso di matrice black metal. La definizione appare ovviamente paradossale, perciò la cosa migliore è lanciarsi nell’ascolto di queste dieci tracce, distribuite in mezz’ora, e scovare da sé i riferimenti più soddisfacenti.
L’iniziale “Sleds” è quanto di più etereo ci possa essere, con le sue voci angeliche che si stagliano su panorami ghiacciati: se ci si basasse solo su questi primi minuti, Pyramids sembrerebbe un ascolto semplice e piacevole, ma già con “Igloo” la band americana cambia le carte in tavola, mostrando tutto il proprio amore per le dissonanze e il noise più elettronico. “The Echo Of Something Lovely”, con questo titolo che sa di manifesto, ci riporta su scenari paradisiaci, ma è solo un’illusione che questi abili tessitori ci offrono prima di farci ricadere nel baratro, sballottati nel loro caleidoscopio di suoni e rumori. Si distingue tra le altre “Hellmonk”, che riassume al meglio gli elementi citati poco sopra: prismi multicolori si scontrano placidamente, con un drumming frenetico di sottofondo a creare un tappeto di battiti infiniti su cui si alternano (nella seguente “This House Is Like Any Other World” con ancora più evidenza) vocalizzi confusi immersi in un continuo feedback.
La formula, una volta fatta propria dopo ascolti più o meno numerosi, è effettivamente ad alto rischio di ripetitività, ma il minutaggio contenuto a cui si sono saggiamente limitati gli americani rende l’album un’esperienza sempre piacevole, se si è disposti a scendere nelle sue profondità soniche e a perdersi nei suoi cangianti scenari. Pyramids forse non è un disco geniale, ma il parto di menti che sanno maneggiare con grande perizia gli strumenti di cui sono a disposizione: la volontà di spiazzare l’ascoltatore con questo perpetuo avvicendamento melodia / rumore è quasi ostentata, ma se si ha la pazienza di “stare al gioco” si riuscirà a trarre sensazioni sempre piacevoli da questo ascolto, perdendosi più dentro sé stessi che dentro la musica vera e propria. Gioiellino.
7.5
[Questo articolo fa parte anche dello speciale dedicato a Pyramids & Horseback, disponibile qui.]