(Relapse Records, 2012)
Yellow:
1. Yellow Theme
2. Take My Bones Away
3. March To The Sea
4. Little Things
5. Twinkler
6. Cocainium
7. Back Where I Belong
8. Sea Lungs
9. Eula
Green:
1. Green Theme
2. Board Up The House
3. Mtns. (The Crown & Anchor)
4. Foolsong
5. Collapse
6. Psalms Alive
7. Stretchmarker
8. The Line Between
9. If I Forget Thee, Lowcountry
Scandalo, capolavoro. Si sono venduti, anzi no, hanno fatto il loro miglior disco. No, no, è un album vergognoso, l’ho cestinato subito; però si sono rinnovati nel migliore dei modi. Stanno facendo come i Mastodon, sono meglio dei Mastodon. Abbiamo già sentito, e probabilmente sentiremo ancora a lungo, i pareri più disparati sul nuovo album dei Baroness, nome sempre più conosciuto che sta travalicando i confini del panorama sludge metal a cui era relegato. Alcuni giudizi ci sembrano affrettati, altri espressi con eccessiva presunzione, tanto perché al giorno d’oggi se non ascolti i Baroness sei un po’ “indietro” (però fino a pochi anni fa eravamo ancora quattro gatti a vederli, chi è indietro allora?), ma si parla spesso di opinioni molto diverse tra loro. La verità sicuramente non sta nel mezzo, anche dopo molti ascolti si fa fatica a farsi un’idea chiara e netta su questo disco, a meno che non si voglia affidarsi alle prime impressioni, che però spesso tradiscono.
Durante il primo ascolto di Yellow & Green infatti, la nostra prima reazione sarebbe stata quella di strappare la nostra maglietta dei Baroness e bruciarla, come hanno fatto, perpetuando una “gloriosa” tradizione, molti tifosi del Liverpool quando Fernando Torres passò al Chelsea (non potevano sapere che si sarebbe improvvisamente trasformato in uno scarpone raro). Poi però ci siamo calmati e abbiamo provato ad entrare lentamente dentro l’album, per comprendere questi “nuovi” Baroness, togliendoci dalla testa i magnifici Red Album e Blue Record, liberando la mente dai classici pregiudizi che dominano chi è troppo fan di una band e chi abusa del concetto di “gruppo venduto” e “disco commerciale”.
Francamente, definire “commerciale” un doppio disco della durata totale di settantacinque minuti ci sembra abbastanza ridicolo. Sicuramente in Yellow & Green ci sono davvero pochi passaggi che si possano definire con decisione “metal”, predomina una forte componente (alternative / progressive) rock e i Baroness palesano fieramente tutto il loro gusto melodico; ci sono anche pezzi che potrebbero essere considerati “singoli radiofonici”, ma rimaniamo lontani anni luce da quanto fatto dai Mastodon col tremendo The Hunter in pezzi come “Curl Of The Burl” (purtroppo però, siamo lontani anche dal capolavoro / “canto del cigno” Crack The Skye). Tuttavia, l’ascolto approfondito dell’intera opera non è certo qualcosa di totalmente semplice, ed è per questo che riteniamo la maggior parte dei giudizi letti o sentiti su quest’album abbastanza affrettati: Yellow & Green necessita di un certo background rock per essere apprezzato, ed è dunque rivolto anche ad un pubblico diverso da chi ascolta da sempre i Baroness. Per chi segue la band di Savannah dagli esordi e dall’inarrivabile Red Album è dura abituarsi, ma chi conoscerà i ragazzi per la prima volta con questo terzo full-length potrebbe comunque scoprire e apprezzare anche i vecchi lavori.
Il punto è che, essendo una band così in crescita di consensi, era inevitabile che il loro ritorno avrebbe scatenato commenti negativi, scontentando qualcuno. Blue Record aveva già intrapreso timidamente la strada dell’evoluzione, era necessario che i Baroness osassero maggiormente: sarebbe stato facile comporre un disco simile ai precedenti, dunque in fin dei conti apprezziamo il risultato cercato e ottenuto da Baizley e soci, anche perché il rischio di fare il passo più lungo della gamba era molto grosso. Ma stiamo parlando di un gruppo di eccellenti compositori, capaci di scrivere grandi pezzi e dotati anche di una vasta cultura musicale. Soprattutto nel secondo disco, Green, è evidente l’influenza del prog rock settantiano, a partire da “Green Theme” in poi è tutto un idillio atmosferico / melodico con continui richiami a Pink Floyd e compagnia; parliamo di sonorità che stanno prepotentemente tornando alla ribalta, e su cui la stessa Relapse sta mostrando di puntare abbastanza (vedi l’ultimo disco dei Royal Thunder), ma i georgiani fan vedere di essere qualche gradino sopra tutti.
Tuttavia le potenzialità dei Baroness si vedono più chiaramente in Yellow, che probabilmente sarà l’unico disco ad essere ricordato di questa release, relegando il secondo all’ascolto di appassionati armati di pazienza e amore per certa musica. “Take My Bones Away”, “March To The Sea”, “Cocainium” e “Sea Lungs” saranno sicuramente presenze fisse nelle scalette dei futuri concerti, e pazienza se non sono pezzi su cui scapocciare: speriamo piuttosto che abbiano lo stesso impatto anche dal vivo, ma Baizley dà l’impressione di trovarsi a proprio agio con le clean vocals, e non sembra che disegni linee vocali che non gli appartengono e che sicuramente non può reggere (citofonare Mastodon). A confermare ciò arriva, in chiusura di Yellow, la splendida “Eula”, sicuramente il pezzo migliore dell’intera opera, dotato di un climax che mette i brividi e un crescendo corale che speriamo davvero riesca ad essere replicato on stage.
Insomma, Yellow & Green è un doppio disco monumentale, più impegnativo di quanto sembri, di cui si parlerà a lungo e che segnerà una svolta importante nella carriera dei Baroness. Certo, sembra di ascoltare una band completamente diversa da quella che ha composto nel recente passato due dischi incredibili e per troppo tempo sottovalutati, ma prendendo l’opera completa in sé la nostra considerazione non può che essere positiva, a discapito del voto che alla luce di quanto scritto potrebbe sembrare basso, ma non lo è. Quello che non può essere rappresentato da un voto o dal giudizio complessivo è però la paura, il timore che fortemente abbiamo che questo sia l’ultimo bel disco che possiamo aspettarci da John Baizley & Co. Non ci stupiremmo se per il prossimo album non vedremmo più i Baroness sotto Relapse, ma nel roster di un’etichetta molto più grande, costretti ad esibirsi in qualche talk show americano; abbiamo già i brividi a pensarci, ma speriamo di essere smentiti.
7.0