Esiste un ponte che collega l’Italia e gli Stati Uniti. Sono rincoglionito, dite? Probabile, ma il ponte esiste, e lo attraverso in botta ogni volta che ascolto i Suzanne’Silver. Ad essere più precisi questo ponte è un diretto che collega gli USA alla Sicilia, eppure non è lo sbilenco ponte sullo stretto tanto annunciato e mai costruito, anzi, è una struttura solida che si posa da una parte su trent’anni di sperimentazioni e derive indie-rock d’oltreoceano e dall’altra sull’originalità e sulla pluriennale tradizione di rock sperimentale siciliane, sancendo una sorta di nuovo gemellaggio artistico tra la nostra italianità e quel calderone di popoli, idee e suoni verso il quale molti nostri connazionali sono emigrati nei secoli.
I Suzanne’Silver li avevo visti dal vivo anni fa senza averli mai sentiti nominare e ne ero rimasto folgorato. Chiudendo gli occhi e facendo finta di non essere nel circolo Arci di un paesello della provincia di Cuneo mi pareva d’aver varcato un confine spazio temporale ed essere finito nel Midwest americano degli anni ’90 popolato dai miei gruppi preferiti: fender taglienti e morbide all’abbisogna, voci dal tono caldo e pronuncia impeccabile che si mescolavano con scioltezza, una sezione ritmica asciutta ma elastica ispirata da un jazz che definirei ‘primigenio’, di quello che si sente solo più per strada e per caso, un suono variegato eppure corale che andava diretto al punto senza sbagliare un colpo, e univa sonorità ormai ‘classiche’ col post-rock a cavallo tra ’90 e anni zero in un flusso di continuità perfetto. Su questa linea Like Lazarus non delude, anzi, rinforza le mie impressioni: ci sono classe e gusto, i suoni giusti e una serie di pezzi eleganti scritti con quel piglio sornione che credo sia un tratto tipico dei siciliani tutti senza per forza scomodare i gruppi della madonna che da quell’isola sono emersi negli anni. Poliritmi, blues, il savoir-faire di chi padroneggia il proprio strumento e ne sa usare più di uno, molte affinità rispetto alla mai dimenticata ‘cricca’ di Louisville KY, echi di Califone elettrici, l’America in tutte le sue frontiere, il ‘post’ in tutte le sue sfaccettature, il mare e un fottìo di altre cose. I pezzi sono piccole gemme dotate di un’anima propria: “Hawaii (We Failed)” attacca con una fanfara agrodolce condita da una slide-guitar che scimmiotta un trombone e un coro di scimmie urlatrici. Il pezzo si riprende dal suo svarione, molla un attimo e si riassesta prima su una simil-strofa e poi su una (doppia? tripla?) batteria che prelude alla conclusione armonica con spruzzate di organo. “As A Child” parte sontuosa ma sboccia presto in un pezzo dal sapore folk-punk per poi ritornare sui suoi passi. Le chitarre mordono senza per fortuna lasciare lividi e il basso trascina: figate da ascoltare. “You Might Be Hurt” scongiura il pericolo in agguato nel suo titolo avvolgendo l’ascoltatore in uno strato d’ovatta costituito dai ripetuti arpeggi intrecciati di chitarra ma sostenuto dalla batteria incalzante e da voci rassicuranti. Il pezzo si chiude in naturale lentezza col suono di una sveglia (???). E che dire dei frammenti di soul dilaniati e ricomposti in “Paper Of The Way”, in un crocevia tra atmosfere black music, un Jeff Buckley stralunato e una voce che mi fa venire i brividi e apparentemente racconta un momento intimista di risveglio durante le sessioni di registrazione? “6 A.M.” è una filastrocca che cavalca per tre minuti e mezzo prima di lasciare spazio al proprio riverbero e ad un’esplosione-tripudio di twang guitars, la finale “Tomorrow Ear” passa invece da marcetta a lento trascinato e prosegue in un saliscendi dinamico fatto di voci sovrapposte, feedback, chitarre acustiche, espressioni in dialetto e riprese. Nella versione digitale della Atypeek vi sono anche due tracce extra, due cavalcate vago-beefheartiane che sfiorano l’improvvisazione radicale e che si chiamano “Lampi Grevi pt. I e pt. II”, probabile omaggio ‘italianizzato’ della band al compianto (e conterraneo da parte di padre) genio di Zappa, e un brano che dal titolo, “Happiness Is A Cold Knife”, è encomio/presa per il culo dei Beatles. In realtà però questi brani non aggiungono nulla, anzi, forse deviano l’attenzione rispetto al ben più coinvolgente corpus dell’album, ma vi danno l’idea dell’estro e della spendibilità di una band simile.
Se Deadband mi aveva proiettato nella stratosfera, Like Lazarus mi fa posare i piedi ben saldi a terra, ma sulla Nostra terra, confermando quella che era già una mezza certezza, ovvero che per una volta ancora è da qui che arriva musica seria. E un po’ come successe al buon vecchio Lazzaro, anche il mio orgoglio di essere italiano risorge dalla tomba. Unica pecca oltre alla brevità del disco: i Suzanne’Silver non sembrano suonare troppo in giro. Poco male, i gioielli sono ancor più belli quando sono rari, e il prossimo anno avremo tutti un motivo in più per andare in vacanza in Sicilia.
(Atypeek, Pied De Biche, Musica Per Organi Caldi, Canalese Noise, Hysm?, New Sonic, Rotten Pope, Goat Man, Doremillaro, Arsonica, Wild Love, Radio Is Down, 2015)
01. Hawaii (We Failed)
02. As A Child
03. You Might Be Hurt
04. Paper Of The Way
05. 6 A.M.
06. Tomorrow Ear