A ben cinque anni di distanza dal sorprendente e acclamato Nations to Flame, i newyorchesi A Storm Of Light tornano con un nuovo album che, ancora una volta, cambia direzione. La band di questo Anthroscene sembra quasi un’altra rispetto a quella che, spogliatasi delle sonoritĂ post-metal e datasi ad un’apocalittica aggressivitĂ industrial, si rivolge ora soprattutto a territori no wave e post-punk.
Dove la band capitanata da Josh Graham ha mantenuto una notevole continuitĂ sono le tematiche: fondamentalmente, la deriva autodistruttiva cui il genere umano sembra essersi votata con lodevole entusiasmo, tramite l’elezione di pazzi e idioti alle piĂą importanti cariche istituzionali, la distruzione dell’ecosistema e il continuo alimentare ostilitĂ reciproche su base etnica, nazionale, religiosa e di orientamento sessuale. Insomma, agli occhi degli A Storm Of Light siamo vicini all’apocalisse e Anthroscene ce lo ricorda molto bene. Come detto, rispetto al disco precedente la band mescola le carte e abbandona le sonoritĂ piĂą marziali, pur mantenendo una notevole omogeneitĂ che rende il sound compatto ed opprimente. Non tutte le scelte, tuttavia, ci sono sembrate felici: in particolare, Graham è tornato a far ricorso a un cantato “pulito”, salmodiante, che non è francamente il suo forte (si senta il chorus di “Blackout”, che frena un pezzo altrimenti molto efficace); poi, l’assalto sonoro è condotto soprattutto attraverso le atmosfere del disco, mentre a livello di scrittura notiamo ad esempio che il batterista Chris Common ha scelto linee ritmiche quasi tribali, che seppur massicce danno spesso l’impressione di trattenere lo slancio generale del brano.
Non è, ovviamente, tutto da buttare, ma questa terza incarnazione della band – dopo quella “post” della prima parte di carriera, e quella industrial di Nations to Flame – ci sembra per ora la meno azzeccata. Certamente, chi apprezza le sonoritĂ citate, diciamo (con beneficio d’inventario) in bilico tra Killing Joke e Godflesh, può andare sul sicuro; e merita un elogio anche la capacitĂ del quartetto newyorchese di cambiare ancora pelle, spingendosi in nuovi territori, senza adagiarsi sugli allori. Il disco dĂ però talvolta una sensazione di staticitĂ che non è sempre compensata dalla creazione, pur sapiente, di atmosfere alienanti. Per chi scrive, un piccolo passo indietro.
(Translation Loss Records, 2018)
1. Prime Time
2.Blackout
3. Short Term Feedback
4. Life Will Be Violent
5. Slow Motion Apocalypse
6. Dim
7. Laser Fire Forget
8. Rosebud