Per chi scrive è un immenso onore mettersi a fare quanto ci s’accinge a fare – iniziamo bene, contorti fin da subito. L’Obscene Extreme Festival, da esattamente quindici anni, è la mecca dell’estremo con Attitudine con la ‘A’ maiuscola: un calderone in cui brutal, hardcore, vecchio death metal, ma, soprattutto grindcore e quanto circola attorno a questa scena, si fondono in un’armonia ed in una varietà di proposta che lo rendono sia un fest di culto, sia un successo capace di garantire, ogni anno, dai seimila ai diecimila accessi.
Da sempre nel simpatico e misconosciuto paesino di Trutnov (salvo una parentesi di cambio di location nel 2009), a pochi chilometri dal confine polacco, l’OEF, ad opera dell’instancabile manager e fondatore dell’Obscene Productions Curby, garantisce la (non)musica che amiamo, pioggia, fango, merda sia sopra, sia sotto il palco, ma, ancora di più, un’organizzazione ai limiti della perfezione – ai limiti dell’incredibile, in un contesto così punkabbèstia, fra ubriachi e rimasti perenni, ciccione-I’m-sexy-and-I-know-it, bevitori della propria urina e personaggi travestiti da banane e ballerine di flamenco nel pogo –, un’atmosfera familiare ed una serenità pazzesca, quasi da vacanza. Malgrado, infatti, anche gli intrattenimenti extra-musicali (il grottesco Hellshow, con la gente seminuda che si fa appendere a ganci da macellaio inneggiando a Satana; piuttosto che il Freakshow, con le sue corse nei bidoni della spazzatura e le gare di vomito) e l’atmosfera generale possano parere estreme, moleste e più che goliardiche, emerge la tranquillità data dalla totale assenza di cagacazzo: nessun trve che ti guarda male perché hai i capelli troppo lunghi o troppo corti, o la maglietta degli Iron Maiden e non dei 7 Minute of Nausea, nessun personaggio sopra le righe che voglia per forza coinvolgerti nelle peggio esperienze con maleducata e noiosa insistenza. Qualcosa non t’interessa? Basta non guardare: in una zona immensa, con tanto d’area camping coi controcazzi, con infiniti stand di cibo vegan (buonissimo, parola di non-vegan), un grind ed un metal market di proporzioni ragguardevoli, con altre diecimila persone, anche per un sociopatico come me può diventare piuttosto difficile annoiarsi.
A rendere, poi, migliori le cose dell’ultima edizione, c’è da dire che, dal 3 al 7 luglio, ha piovuto solamente tre ore (gli aficionados del festival sapranno benissimo che questo è il miglior record di sempre; altri ricorderanno l’ultima edizione, in cui quattro giorni su quattro la pioggia ha regnato sovrana!) e il sole, senza mai scaldare in maniera eccessiva, ha dato il suo ‘di più’ per rendere la quindicesima epica edizione dell’Obscene Extreme una delle migliori di sempre.
A seguire, il report del sottoscritto.
PS_69 bands to prove that silence sucks, recita, da sempre, il motto del fest: per ovvi motivi (dormite, hangovers, sopravvivenza, compagnia…) non sono riuscito a cuccarmele tutte, per cui non vogliatemi troppo male. Sappiate, cari grinders, che tutto è comunque stato fatto con cuore. E, mal che vada, se proprio ve le volete cuccare tutte, un domani fatelo un salto a Trutnov. L’esperienza diretta vale più di mille parole e altrettante recensioni. Baci e abbracci.
MERCOLEDI’ 3 LUGLIO
Per la primissima volta, forse, per rendere più speciale la ricorrenza n. 15, l’OEF ha voluto, nella serata del mercoledì, fare qualcosa di diverso, organizzando un vero e proprio mini-doom-fest: scelta decisamente paradossale, in quello che è il tempio open air della fast music, per eccellenza! Ciononostante, fra un tentativo mal riuscito di pioggerella e il freschino serale, gli spalti dell’arena dell’OEF erano gremiti e i primi freaks iniziavano a affollarsi sotto il palco, dalle 21,00 in poi.
Esoteric
Causa doccia, sistemazione in albergo e cena, purtroppo, mi perdo la prima band, gli Evoken e, per giunta, mi viene la paranoia di perdermi anche gli inglesi Esoteric. Ringraziando il cielo, i Nostri fanno doom, per cui, come recita un noto meme internettiano, malgrado qualche minuto di ritardo, riesco a godermi l’intero set. Lo confesso: il doom non è nelle mie corde; dopo un’ascoltata a Forest of Equilibrium dei Cathedral e qualcosina dei My Dying Bride, tutto il resto è (para)noia e gli Esoteric, ahimè, non fanno eccezione. Che dire? Lentissimi, ineccepibili come strumentisti, con suoni ottimi ed un buon tastierista che garantisce quel tanto d’originalità con inserti elettronici e atmosfere dal sapore ‘pinkfloydiano’ che, nel piattume generale, danno feeling ora caldi, ora freddi.
Hooded Menace
Di questi altri signori ne avevo sentito parlare parecchio, complice la grande promozione che la Relapse ha fatto della loro ultima fatica, Effigies of Evil. Decisamente più ‘vivaci’ (virgolette d’obbligo) ed articolati di chi li ha preceduti, la band, duo in studio, quartetto dal vivo, ha fatto uno show roccioso, complici riff di chitarra granitici rubati sapientemente da casa Incantation, enfatizzati da suoni live pazzeschi, ed accelerazioni – rade – capaci d’incursioni in certo crust scandinavo. Anche in questo caso, not exactly my cup of tea, ma sicuramente un buon intrattenimento, in vista della fucina di blastbeats che, dal giorno dopo fino a sabato notte, mi sarei sparato.
GIOVEDI’ 4 LUGLIO
E’ pomeriggio e il sole scalda senza essere intrusivo, quando, finalmente, incomincia il ‘vero’ Obscene Extreme Festival. Se la serata doom è stato l’aperitivo, dalle 14,00 in poi s’è veramente entrati nel vivo, fra gente che già provava mosse nel pit sotto il palco col soundcheck della prima band e birre nelle mani di pressoché tutti i presenti, nonché i primi aromi di humus fangoso misto a vomito che iniziavano a levarsi nell’aria.
Smashing Dumplings
L’onere e l’onore di ‘battezzare’ il fest sono spettati a questo quartetto locale, dal moniker, a mio parere, geniale e dalle sonorità quanto mai ovvie, per una grind band della Rep. Ceca: parti ‘ballabili’ fra CBT e Dead Infection + accelerazioni spastiche in blast sulla scia dei primissimi Napalm Death + voce gutturale e pig squeals = la quintessenza del grindcore a tinte gore di scuola ceca. Col pubblico dalla loro, i quattro giovanotti hanno saputo sollevare un discreto macello sotto il palco, consegnando i loro dignitosissimi venti minuti d’esibizione ai gloriosi annali del grind. Decisamente un buon inizio!
Ape Unit
Insieme agli altri tre italiani della bill (Hour of Penance, Natron, Jesus Ain’t in Poland), il quartetto grind/powerviolence di Cuneo non poteva che essere fra i sorvegliati speciali di Grindontheroad. Con la formazione rimaneggiata per l’occasione (alla batteria Steve Bianco dei thrashers torinesi Endovein sostituiva il defezionario Los, causa infortunio al braccio sinistro), alla seconda esperienza fuori dai confini patrii, i Nostri hanno saputo farsi valere, presentando una scaletta incentrata per lo più su Unforgivable Holidays, ma anche lasciando spazio per alcuni inediti. Incredibilmente i presenti, fomentati anche dai non pochi spettatori italiani, hanno reagito alla grande, fra stage diving, invasioni di palco, lanci di salvagente e cazzi finti. Missione compiuta per i quattro piemontesi!
Mörkhimmel
Dalla Cechia con furore, una band che, a occhi chiusi, avrei pensato fosse stata svedese o, per lo meno, scandinava: immaginate una gangbang fra Darkthrone, Driller Killer, Bathory, Dismember e Skytsystem ed avrete questo interessantissimo quintetto locale. Proto-black metal sulfureo ed oscuro, riscaldato da d-beat e riffazzi talora motorheadiani, con una voce ruvida e sbraitata. Sul sito del festival avevan promesso che il loro sound sarebbe stato così maligno e nefasto che avrebbe fatto piovere: beh, non poteva andar loro meglio, dal momento che, dal momento in cui gli Ape Unit hanno lasciato il palco, hanno iniziato a scendere le prime gocce di pioggia che sarebbero divenute un temporale perdurato per almeno tre ore. Scherzi a parte, show ottimo e folla presa bene a pogare nel fango e nel bagnato.
Graveyard
Idem come sopra. Un’altra band tranquillamente confondibile con un combo svedese e, invece… spagnoli (il frontman alto e biondo, poi, avrebbe potuto sviare). Il sound dei Graveyard, però, è decisamente più death oriented, con influenze fra Carnage, Dismember e primissimi At the Gates, con tanto di lentoni sulfurei strategici. Bravi, ma leggermente meno convincenti di chi li ha preceduti.
Perfecitizen
Non lo nascondo: uno dei miei gruppi grind preferiti di sempre sono i cechi Mincing Fury and the Guttural Clamour of Queer Decay (ricordo il loro nome senza dover far copia/incolla da nessuna parte, sappiatelo), purtroppo scioltisi qualche tempo fa. Sapere, però, che due terzi di questi Perfecitizen provengono proprio da suddetta band, m’ha fatto venire voglia di seguire con feticista attenzione il loro show: voce, chitarra, batteria… go! Una vera bomba: le caratteristiche più zozze dei vecchi Mincing Fury… si mischiano ad un buon drumming ed a sonorità futuristico/sperimentali che m’hanno fatto pensare tantissimo a mostri sacri del grindcore come i Discordance Axis. In tempo zero mi son procurato il loro disco d’esordio, Through. Promessa recensione in tempi brevi! Figata dal vivo.
Antigama
Confesso di non avere mai ascoltato né apprezzato troppo (= quasi nulla) questi Polish grindcore heroes che, fin a qualche tempo fa, avevano fatto saltare sulla sedia parecchi addetti ai lavori della Relapse col loro mix fra grind sperimentale e momenti à la Meshuggah. Per curiosità, ho voluto dare loro una possibilità live e mi son dovuto ricredere: quanto di piatto e ripetitivo su disco, dal vivo ne guadagna in grinta ed energia, complice un’esecuzione chirurgica dei pezzi. Ciononostante, ancora ora, non mi sento ancora convertito alla loro religione.
Chapel of Disease
A furia di fare facilissimi ironie, insieme ad alcuni amici, sul nome della band di cui sopra, la curiosità di vedere all’opera la Cappella del Disagio era quasi stellare. I quattro crucchi fanno un death metal novantiano grezzo e coinvolgente che, quando blasta, pesca dai vecchi Morbid Angel, e quando va lento rapina soluzioni a larghe mani dagli Incantation e dalla scuola svedese primigenia. Roba onesta e divertente: se siete dei fissati con l’old school death metal, il loro Summoning of the Black Gods, disco d’esordio, dovrebbe darvi orgasmi multipli. Band onesta, ben accolta dai presenti, rotolanti e rantolanti nel fango.
Usurpress
A furia di sentire band ‘svedesezzanti’, era finalmente giunto il momento per trovare sul palco una band che è svedese veramente: gli Usurpress, infatti, sono una superband con membri di Uncurbed, Insision ed ex-Skytsystem. Purtroppo, come tante “all star bands”, rischiano di deludere: non che i Nostri abbiano suonato male o fatto schifo, anzi! Il paradosso più assurdo era, però, che dopo tre band straniere ma feticiste dello swedish-style, loro, che svedesi lo sono davvero, mi sono parsi i meno svedesi di tutti, complice il loro death-crust ben eseguito ma piuttosto anonimo. C’est la vie; se siete curiosi, un’ascoltata on line non ve la negherà nessuno.
Fuck the Facts
L’arrivo sul palco dei grinders canadesi è fortunatamente coinciso con il termine delle piogge per tutto il fest; se già, comunque, il pubblico non s’era scoraggiato, sostenendo le band da sotto il palco, per uno dei più ‘woodstockiani’ moshpits che la storia del grind abbia mai avuto, l’uscita del sole, unita all’arrivo dei primi big del festival, si sono dimostrati una coincidenza tanto fortunata e fatale, perché, sotto il palco, il macello dei paganti poganti è stato davvero ragguardevole. Con una scaletta capace di svariare su tutta la loro carriera, con la piccola/grande Mel Mongeon più incazzata e in forma che mai, i Fuck the Facts hanno veramente dominato il festival, complice un’esecuzione tecnicamente ineccepibile ed un pathos ed un appeal più hardcore che mai. Pollici su!
Fleshless
In piena estasi da Fuck the Facts, ho subìto quasi con indifferenza lo show dei brutal deathsters cechi Fleshless. Da sempre una band a mio avviso mediocre che cerca di scopiazzare i Suffocation, millantando originalità, inserendo melodie che non ci stanno per nulla, spesso presente nelle bill annuali dell’OEF, ovviamente sono amatissimi dal pubblico del festival, il quale non ha lesinato in botte e partecipazione. Con una scaletta incentrata sul loro disco più salvabile, To Kill for Skin (scelta strategica, in quanto fu la primissima produzione della Obscene Productions: un modo decisamente particolare per fare gli auguri a Curby e all’OEF n. 15), i Fleshless hanno avuto un’accoglienza incredibile con alcuni fra gli stage diving e i momenti più assurdi pirotecnicamente del fest. Probabilmente, al quartetto di veterani brutal death cechi, al di fuori di Trutnov, non sarebbe andata così bene…
Ahumado Granujo
Si può fare goregrind unendo voci supergutturali, grooves di scuola CBT, accelerazioni pazzesche di scuola Regurgitate, momenti ‘slammeggianti’ e… hardcore/techno più maranzona che mai? La risposta è sì, se si è cechi e ci si chiama Ahumado Granujo. Il loro show è stato fra i più distruttivi e carnascialeschi dell’intero festival: a momenti non si riusciva, infatti, a vedere i quattro musicisti sul palco, tale era l’invasione dello stage da parte dei numerosissimi crowd-surfers e la calca generale. Personalmente, li ho trovati tremendamente demenziali e kitsch, ma l’utente medio dell’OEF, in quel momento, non pareva desiderare altro.
Desecration
Da diverso tempo, più d’un amico m’aveva raccomandato questo power-trio gallese, dedito al death metal vecchia scuola: ascoltando qualcosina on line, li avevo trovati buoni, ma decisamente derivativi e non particolarmente degni d’interesse. E invece no: i Desecration, attivi da fine anni ’90, sono davvero garanzia di qualità in materia d’old school death metal. Precisi, chirurgici, capaci di prendersi anche con autoironia fra una canzone e l’altra, con suoni immensi: m’è parso di sentire i Deicide senza la spocchia e l’antipatia di Glen Benton (tutto da guadagnarci, insomma). Epici. Con un pubblico che li ha accolti con grandissimo calore, hanno senza dubbio messo in scena uno degli show più memorabili dell’OEF.
Malignant Tumour
Quando le prime tenebre hanno iniziato a coprire Trutnov, è stato il momento di uno degli acts locali più amati in assoluto: partiti a fine anni ’90, con mediocri risultati, come goregrind band, rinnovatisi su lidi più crust-core, al momento i Malignant Tumour sono la versione ceca dei Motorhead, anfetaminizzati da suoni heavy metal e grind. In barba a tutti i superfans del rock duro e puro, il quartetto ceco ha fatto una performance divertentissima, giocando anche sui personaggi caricaturali che loro stessi, nel corso degli anni, hanno costruito per autodefinirsi on stage: just rock’n’fuckin’roll e tante badilate, fra d-beat, riffoni motorheadiani, aggressione sonora, alcol e puro divertimento. Il pubblico dell’OEF non poteva chiedere di meglio, in quel momento: grandissima live band.
Negative Approach
Verso le 22,00, ecco la prima vera chicca della quindicesima edizione dell’OEF: penso non ci sia bisogno di presentare il quartetto hardcore di Detroit; nel pubblico l’emozione e la sensazione d’assistere ad un vero e proprio evento era palpabile. Se, ancora oggi, si parla di ‘hardcore fatto sull’andazzo della roba uscita negli anni ‘80’ è soprattutto grazie a loro, oggi quattro distinti cinquantenni con la prima neve fra i capelli, con parecchia voglia di fare ancora casino. In apertura, con il classicissimo “GOOOO!!” dopo un one-two-three-four di charleston, i Negative Approach ce l’hanno messa tutta per trasportare l’OEF nel mood dell’hXc dei bei tempi che furono, giocandosi subito (sic) il cavallo di battaglia “Can’t Tell No One”, per poi esplorare la loro cronistoria, soprattutto con qualche classicone del loro mitico triennio 1981-1984. Purtroppo, da spettatore, dopo un po’, complici suoni un po’ spompi e poco definiti, ho provato più tenerezza per quei quattro signori pieni di sana voglia di revival che entusiasmo per la loro proposta sonora. Comunque sia, tanto di cappello.
Cryptopsy
Per chi avesse letto il mio report del live di qualche tempo fa a Romagnano Sesia (o anche chi non l’avesse fatto), rimando tutti fra le pagine virtuali di GOTR per rispulciarselo, perché, la performance dei Cryptopsy è stata esattamente la fotocopia dell’altra, con la differenza che, ora, avendoli visti per la seconda volta nell’arco di poco tempo, il mio entusiasmo s’era decisamente ridimensionato. A ciò aggiungo il fatto che, dal vivo, la voce di Matt McGachy è decisamente noiosa e – liberi d’insultarmi – credo che qualsiasi personaggio italiano in grado di fare roba gutturale in una delle nostre brutal bands di spicco possa fare senza problemi quello che fa lui e che i suoi costanti richiami a sostenere l’underground più lecchinate gratuite al pubblico, malcelate da sboronaggine, hanno francamente rotto i coglioni (scrivo queste cose quasi con le lacrime agli occhi, visto che None So Vile è uno dei dischi che più adoro da quando è uscito ad oggi). Ineccepibili strumentalmente, perfetti esecutivamente, ma freddi e privi di feeling.
Hell Show
Scoccata la mezzanotte, come tradizione, è scattata l’ora delle streghe. Da sempre uno degli intrattenimenti più noti e peculiari dell’OEF, il tattoo-shop di Praga Hell offre uno show a dir poco grottesco, fra becerissimi riferimenti a pseudo-satanismo della domenica, musica tamarra che non sfigurerebbe nei dance-club della trilogia di Matrix e, soprattutto, dopo un’analisi lombrosiana delle facce degli astanti del festival, per l’80% dei presenti, l’unica possibilità di potere vedere un paio di tette dal vivo. Tipe in lattice si fan infilzare schiena e ginocchia, mini-dotati vestiti da Santo Padre volteggiano infilzati sul palco, aspiranti modelle viaggiano a quattro zampe al guinzaglio. Grottesco e shockante i primi venti minuti, può strappare un sorriso nei dieci minuti successivi, condanna alla noia nel tempo rimanente. Ovviamente l’obsceniano medio non aspettava altro. Dal mio canto, ho optato per qualche birra insieme ad amici ed un fugace ritorno in albergo.
VENERDI’ 5 LUGLIO
Qualche birra in più ed alcuni impegni extra, nonché la voglia di farmi una simpatica passeggiata in quel di Trutnov – tra l’altro, niente male; ovviamente riconoscere gli indigeni e la gente venuta per il fest è uno dei giochi più facili del mondo! – m’hanno portato ad arrivare al parco dell’OEF verso mezzogiorno, perdendomi, per pochissimi minuti, uno dei momenti storici del festival: l’esibizione dei Cave Had Rod, quartetto cinese goregrind. Si trattava, infatti, della prima band estrema nella storia della Cina ad osare violare i confini patrii per un’esibizione europea: stando ai testimoni dell’evento, si tratta d’una band come tante, non particolarmente degna di nota; ciononostante, com’è comprensibile, il valore dell’evento va ben oltre quello della musica.
Ratbomb
Ad occhio, la lunga notte post-Hell Show aveva decisamente minato la salute e le capacità ginnico-cognitive dell’obsceniano medio. Sì, per tutto il festival, sotto il palco, c’è sempre stato, ora con più o meno gente, un discreto massacro, ma, da venerdì fino alla fine del fest, ho avuto l’impressione che il pubblico fosse più stanco e nel mood d’osservare le band, piuttosto che spaccare gratuitamente teste come nel giorno prima. Ciononostante i giovanissimi grinders francesi Ratbomb, forti d’un paio d’album dal 2011 ad oggi, hanno messo su uno show arrabbiato e grintoso. Raccomandatissimi agli amanti dei Nasum.
Oblivionized
Talora, per semplice cruccio nerd personale, amo spulciare il catalogo on line della Grindcore Karaoke, etichetta underground il cui proprietario è quel J Randall che un bel giorno mise su dal nulla certi Agoraphobic Nosebleed. Malgrado il pessimo e grottesco nome dell’etichetta, il buon J ha fiuto per tutto ciò che sperimenta in ambito grind e cerca di rompere le frontiere più tradizionali: da quel lato, il power-trio inglese degli Oblivionized, per l’appunto, recenti eroi della scuderia Grindcore Karaoke, calzavano benissimo in questo identikit. Mixate Braindrill, Converge e primi Origin ed avrete questi freaks inglesi: esageratamente tecnici fin alla spocchia, ma con un feeling hardcore che, tutto sommato, può mettere d’accordo tutti. Forse per i più open minded o addirittura per i più ‘trendaioli’ amanti di certo deathcore, m’hanno decisamente sorpreso, complice anche una performance fisica e vissuta e non solo di pura masturbazione strumentale.
Departement of Correction
Confesso di conoscere decisamente poco la scena estrema francese: questi Deparment of Correction sono un quintetto parigino, con alle spalle tour negli USA e un deal con niente popò di meno che con la gloriosa label Power It Up. Premesse, dunque, ottime; loro anche belli a vedersi, con le loro frange, tatuaggi e braghe strette, un po’ The Secret, un po’ Converge, un po’ speriamo-di-cuccare-qualche-svariona-hipster-o-simil-emo-nel-pubblico, con una proposta pressoché identica a quella dei Ratbomb (un onestissimo e ben suonato tributo ai Nasum e ai Rotten Sound), hanno fatto pogare alla grande i presenti che, evidentemente, li conoscevano molto meglio di me, chiedendo, talora, esplicitamente certi pezzi. Bravi. E pronti per una carriera nel modeling della DC.
Coldwar
Personalmente, la band che più m’ha sorpreso dell’intero fest (anche se sono altre le band che mi son ultra-piaciute, come forse si sarà intuito); veterani del crust dublinese (!), i cinque irlandesi si sono presentati sul palco con alla voce uno dei personaggi più inquietanti dell’intero festival: un omone tozzo, dallo sguardo glaciale, coperto OVUNQUE di tatuaggi, calvo, che, ovunque andassi, vedevo sempre con una birra in mano, per poi trovarlo accasciato sotto un albero in tarda notte. Al di là di tutto… grandiosi! Crust lento, apocalittico, con chitarre pachidermiche e suoni ottimali per il genere, in piena scuola Tragedy o, per dar riferimenti made in Italy, Nagasaki Nightmare, con accelerazioni in d-beat e rade incursioni nel blast, con sterzate grezze e violente che richiamavano gli Extreme Noise Terror, con le caratteristiche vocals abrasive. Veramente ottimi e coinvolgenti, malgrado il pubblico, complice il sole che, per più d’un’ora, ha picchiato con una certa veemenza estiva, si sia permesso una partecipazione meno fisica della media.
Strong Intention
Questo power-trio, invece, con ex-membri di (rullo di tamburi!) Cattle Decapitation, Misery Index/Dying Fetus e Pig Destroyer ha saputo eccome come smuovere i sederi dei presenti, scatenando un pogo davvero incontrollato, capace di sollevare il più classico dei polveroni, tipici dei terreni argillosi asciugatisi nel sole cocente dopo una mezza giornata d’intenso temporale. Terminato l’excursus à la SuperQuark, posso solamente dire che, se gli Usurpress hanno confermato il mio dubbio sulla natura sincera e valida delle cosiddette ‘all star bands’, gli Strong Intention m’hanno esattamente portato a pensarla in maniera opposta: sberle fastcore, guitar work à la Slayer, chirurgici blastbeats su un morboso riffing death-grind, il tutto sorretto da una voce tagliente, quasi un Tom Araya ancora più incavolato, stop&go’s strategici, grooves radi ma ben dosati… Insomma: hardcore-grind vecchia scuola, suonato col cuore come gli Dèi del Male comandano. A mio parere uno dei migliori acts in assoluto del festival: ascolto consigliato ma obbligatorio per chiunque legga queste righe!
Natron
Nel secondo giorno dell’OEF, ecco la seconda band italiana del lotto. E’ un dato di fatto che, negli ultimi anni, la scena death-grind italiana abbia imparato a farsi rispettare ed il fatto che anche Curby e soci se ne siano accorti, con ben quattro band del Bel Paese nella bill obscena, non fa che dar conferma ad uno dei miei mantra preferiti in sede di recensione di roba nostrana. Questa volta è toccata a, come amano autodefinirsi, the Italian Godfathers of Death, gli storici baresi Natron, band di cui amo il primo disco Hung, Drawn and Quartered, ma di cui son poco entusiasta per quanto riguarda le produzioni più recenti. Ciononostante, i Nostri hanno saputo fare uno show roccioso, sostenuto da ottimi suoni, per altro, e da un pubblico decisamente dalla loro – forte realizzare quanto sia sentita l’importanza di questo combo di casa nostra solamente al di fuori dei confini italiani…
Crepitation
La slam-brutal-death-comedy-band inglese per eccellenza: attivi da più d’un decennio, mai con la stessa formazione (penso che chiunque abbia suonato/cantato brutal nel Regno Unito, dai Cerebral Bore, agli Amputated a chissà quanti altri, abbia militato almeno quindici giorni nei Crepitation), con alle spalle già altre apparizioni all’OEF, i Crepitation, malgrado suoni pessimi di chitarra e batteria, hanno fatto uno degli show più partecipati del fest, ai livelli degli Ahumado Granujo il giorno prima, fra pogo furente ed apparizioni carnevalesche. Rallentamenti tattici, grooves, gravity e voci volutamente grottesche e disumane, con intros che pescano fra beceri film comici, disco anni ’80 e ‘trashate’ simili. La quintessenza, insomma, della band adatta per far partire il casino all’OEF. E di casino, diecimila mi sono testimoni, ne hanno fatto decisamente parecchio. Divertenti live, ma decisamente trascurabili su supporto di plastica.
Subito dopo, fra fame chimica, chiacchiere con alcuni italiani del Nord-Est, birre e giretto per il metal market, mi son perso tre band, ma, per la gioia dei brutaloni presenti, son tornato in tempo per vedermi gli Hour of Penance.
Hour of Penance
Le rodatissime macchine da tour di Roma, i ‘Behemoth de noàrtri’, il quartetto death metal che qualunque straniero si trova sulla punta della lingua quando pensa a Italian Death Metal, per l’occasione, avevano Cinghio, membro dei grinders Buffalo Grillz, al basso, a sostituire temporaneamente il bravissimo Silvano; ciononostante, il loro show s’è dimostrato potente e coeso, con il classico obliterante drumming non-stop, ma con suoni però confusi, per lo più per quanto riguarda la chitarra, ma con un growl potente in primo piano, che mai ha perso un colpo. Benché le loro sonorità, soprattutto le più recenti (sulle quali s’è basato ovviamente l’intero set dei romani), legate all’ultimo album, Sedition, non tocchino particolarmente le mie corde, da italiano, è stato un piacere percepire il worship che c’è all’estero per una band di casa nostra e vedere la grande partecipazione dei presenti sotto palco. In bocca al lupo, boys!
Gadget
Anche nel giorno più metal-oriented della programmazione dell’OEF, c’è stato, comunque, spazio per il grindcore di alta qualità: candidati, insieme ai Rotten Sound, ad essere i potenziali eredi degli ormai mitologici Nasum, i Gadget sono una delle realtà svedesi più famose ed attive, benché non s’abbiano loro notizie dal 2010 (uno split con i californiani Phobia). Ciononostante, i quattro scandinavi si sono lanciati alla grande, con il loro sound più swedish che mai: chitarre grosse ma taglienti, blastbeat furenti e grooves incalzanti di scuola hardcore evoluto. Malgrado alcuni problemi tecnici ai cavi ed ai microfoni della batteria (il povero drummer era costantemente circondato, mentre suonava, da assistenti di palco che smanettavano a destra ed a manca… enfatizzando la sua funambolica prestazione!), i Gadget si son dimostrati rocciosi e coesi, coinvolgendo in un pogo furente i presenti.
Coldworker
A proposito di Nasum. In questa formazione, nuovamente svedese, il batterista della storica band ci suona. L’impressione, però, che m’hanno dato i Coldworker – pronto ad essere insultato e smentito – è stata quella d’essere, per citare il sempre politically incorrect Sgarbi, i ‘culattoni e raccomandati’ di turno: “Wow, c’è il batterista dei Nasum? Mega, facciamoli suonare e pompiamoli più che mai!!” Non che la band in questione sia scarsa o cos’altro, ma ho trovato la loro proposta quanto mai anonima e derivativa, per quanto ben suonata. Decisamente meglio i Gadget.
Birdflesh
Uno dei flagelli che maggiormente distruggono la scena grindcore mondiale sono, a mio parere, le cosiddette comedy-grind-bands: gente con poca scienza con uno strumento in mano che decide di puntare tutto sulla (dubbia) simpatia. Quindi, giù di titoli demenziali, intro idiote e canzoni inutili. Ringraziando il Cielo, però, c’è l’eccezione che conferma la regola (e da cui si dovrebbe prendere esempio…): il trio svedese dei Birdflesh può permettersi di fare pezzi dall’attitudine ridanciana e cazzona, conciandosi con i più assurdi costumi in sede live, suonandosela di brutto, fra grooves crust e blast-beats ‘nasumeschi’, con tanto di ritornelli semi-melodici che un paio di giri di tango nel moshpit non li negano a nessuno. Grandiosi ed inattaccabili, nella loro particolare proposta, con, ovviamente, gli elementi più dementi e carnascialeschi del pubblico parecchio dalla loro.
Napalm Death
Allora. Piccola premessa. Che siate gli oltranzisti per i quali il combo di Birmingham è morto dopo From Enslavement to Obliteration, che siate dei pischelli che li hanno scoperti con Utilitarian, è palese che, senza Napalm Death, tutto quello che è stato scritto in questo report e in pressoché tutto quello che appare quotidianamente su GOTR non esisterebbe minimamente, per cui l’omaggio al quartetto inglese è d’obbligo, come è facile immaginare che, all’OEF, i Nostri siano stati la band più seguita in assoluto del festival: infatti, per tutto il tempo della loro esibizione, né i bagni, né le aree ristoro, né il metal market e quant’altro, avevano un solo avventore del fest presente. Tutti erano lì, ai piedi della grindcore band per antonomasia. Infatti, malgrado alcuni problemi tecnici che hanno minato un po’ il suono di chitarra e, talora, messo la voce dell’informissima Barney Greenway un po’ in seconda, emotivamente e moralmente, i Napalm Death sono stati i trionfatori assoluti dell’OEF, con una partecipazione del pubblico ai limiti dell’assurdo, con un sali-scendi dal palco di stage divers a dir poco impressionante. La scaletta dei Nostri, dopo i primi tre-quattro pezzi presi proprio dall’ultimo da Utilitarian, ha pescato fra i classiconi dei primi full length, con tanto di partecipazione fra il divertito e l’imbarazzato dell’organizzatore Curby ai cori della mitica “The Kill”. I pezzi che avreste voluto sentire, se state leggendo queste righe, li dovreste conoscere, no? Beh, sappiate che li hanno fatti e con una grinta invidiabile, che mette da parte l’età che, in particolare, nella grottesca stempiatura di Shane Embury, sta inesorabilmente avanzando. Maestri.
Grave
Poveri Grave! Già, fra tutte le band della vecchia scuola svedese, sono quelli che, personalmente, m’hanno sempre interessato di meno; per giunta, nella serata del 5 luglio, i Nostri old school deathsters hanno avuto la sfiga di venire dopo l’apocalisse-Napalm Death. Ciononostante il pubblico li ha comunque accolti con calore, complice il fatto che la loro non era esattamente la prima puntata all’OEF; da parte mia, ho preferito ritirarmi per riprendermi dall’estasi dovuta all’esibizione del precedente quartetto inglese…
Anaal Nathrakh
A proposito di gente inglese, questi signori, a parte i Benediction, da cui proviene il frontman, non li ho mai minimamente considerati, ritenendoli, dopo qualche fugace ascolto, il classico gruppo metal estremo più da Wacken che da OEF. Ciononostante, più d’un amico e conoscente con gusti piuttosto simili ai miei, m’avevano consigliato di dare una possibilità all’ultimo Vanitas, a loro parere un disco estremamente ben suonato, personale e particolare, malgrado alcune soluzioni fuori genere: detto questo, la curiosità di fronte al loro set, da parte mia, era al top. Considerato che, in studio, gli Anaal Nathrakh sono in un due e, dal vivo, in cinque, non posso che fare tanto di cappello ai turnisti presenti on stage, capaci di suonarsela davvero alla grande. Ciononostante, una canzone dopo l’altra – per altro, prese per lo più proprio dalla tracklist di Vanitas –, l’idea che la band inglese fosse fuori contesto rispetto all’OEF, coi loro suoni pulitissimi, inserti di clean vocals e melodie ruffiane m’ha toccato più d’una volta e il set dei nostri, esecutivamente e tecnicamente forse il più perfetto del festival, m’ha rubato non pochi ippopotameschi sbadigli (addirittura, il mio vicino di posto sugli spalti s’è addormentato!), conducendomi, in preda al sonno, per inerzia, verso l’albergo, perdendomi, così, le ultime band della giornata…
SABATO 6 LUGLIO
Anche la mattina dopo, fra hangover e commissioni da svolgere, purtroppo, ho perso alcune fra le prime band della bill dell’OEF. Ciononostante, ho avuto modo di parlare con i modenesi Jesus Ain’t In Poland, i quali hanno avuto l’onere di suonare in una delle posizioni più nefaste del festival, fra le 2,40 e le 3,00 di notte! La loro reazione, giustamente, non è stata fra le più entusiastiche, non tanto per la posizione in programma per loro, quanto per il fatto che il loro set sia stato brutalmente tagliato dopo appena dieci minuti d’esibizione e funestato da suoni e volumi degni d’una suoneria d’un vecchio 33.10 (numerosi testimoni dell’evento confermano alla lettera queste considerazioni): davvero un grande peccato, soprattutto perché, all’interno del fest, s’è trattato dell’unico smacco subito da qualcuno durante l’esibizione. L’OEF è un evento iconico per chiunque grind-freak ed amante dell’estremo e uno dei suoi punti di forza sta proprio nella dignità che viene data a ciascuna band che occupa il palco, siano essi gli ultimi grinders della periferia di Praga, siano essi i Brutal Truth: sapere d’un fatto simile, sinceramente, lascia l’amaro in bocca e la reazione arrabbiata e delusa dei Jesus Ain’t In Poland è più che comprensibile – considerando che, i Nostri, al momento sono il combo grindcore più in forma della nostra Penisola. Auguriamo loro di cuore di potersi rifare presto ed ottenere quanto realmente meritano!
Infected Flesh
Cult brutal band spagnola, con il passare del tempo, gli Infected Flesh sono diventati una one man band che, nel corso degli anni, ha coinvolto, nei radi live, la créme del brutal olandese (le dinamiche geografiche di quest’assurdo spostamento, chiedo scusa, mi sono ignote), fra membri di Severe Torture e Disavowed. Ciononostante, la proposta del gruppo, per altro decisamente impattante e divertente, nel 2013 suona decisamente trita e ritrita, fra grooves ‘fetusiani’, rade (ne vogliam di più!) parti tecniche di scuola dutch, voci gutturali e slam tattici. Quanto basta per un po’ d’headbanging pre-pranzo. Birra e vegan burger per tutti gli altri.
Horsebastard
Ecco un’altra band rivelazione dell’OEF e, guarda caso, anch’essi provenienti da territori d’oltre-manica. Il quartetto inglese ha proposto un live intenso e violentissimo, per un grind-powerviolence figlio di dinamiche compositive molto vicine a ACxDC e XBrainiaX: pezzi brevi, ma evoluti, sorretti da blastbeats che sovente facevano incursione nel gravity (elemento raro nell’hardcore), per un muro di suoni ed arrangiamenti degni dei Converge dei tempi d’oro! Veraci, entusiasti e divertiti dalla situazione on stage. Non li conoscevo, ma, dopo la loro esibizione, ho fatto il possibile per procurarmi il loro dischetto Equestrian Blastcore. Anche in questo caso, consiglio un ascolto obbligatorio a chicchessia stia leggendo queste pagine virtuali!
Infanticide
Considerati da molti una delle potenziali new sensations del grindcore svedese, questi quattro giovanotti, nell’ultimo decennio, hanno scomodato, con le loro produzioni, labels del calibro di 625 Thrash e Willowtip; ciononostante, mi son sembrati l’ennesima copia svedese – ben fatta, ben eseguita, ben suonata: chi lo nega? – dei Nasum, forse con qualche spruzzata d’ultimi Napalm Death qua e là. Bravi, ma preferisco decisamente gli originali.
Sete Star Sept
Dal Giappone con furore: lui alla batteria e ai cori sbraitati, lei al basso iperdistorto e agli scream. Quando si parla di musica estrema giapponese, ovviamente, la morbosa curiosità pervade anche il più ottenebrato degli avventori dell’OEF: l’attenzione, infatti, per la suddetta band, in tour europeo già da qualche giorno, era stellare e, a conti fatti, ha diviso il pubblico, fra pro e contro. Il duo nipponico propone un noisecore all’ennesima potenza: gli ultimi Burmese stuprati dai 7 Minute of Nausea e sfasciati a badilate dai primissimi Anal Cunt, per un risultato di chaos organizzato che strappa un sorriso e lascia parecchi dubbi se non s’è abituati al genere, ma che potrebbe esaltare se i Dechecharge sono fra i vostri ascolti quotidiani e se vi viene voglia di fare headbanging anche quando sentite un treno passare.
Depression
I Carcass di Symphonies of Sickness col vocione gutturale à la Gut (ridimensionando il tutto parecchio, sia chiaro): nulla di rivoluzionario per questi veterani dalla Germania, formatisi nel 1989, ma una proposta onesta che ha fatto riprendere a pogare con costanza i presenti, dopo il set del duo giapponese. Vedendo l’andazzo derivativo anche delle band successive, ho preferito farmi un giretto nel metal market in modo da scaldarmi per le band che m’avrebbero interessato maggiormente, che sarebbero giunte in seguito.
Sublime Cadaveric Decomposition
Trascurati causa acquisti i crusters portoghesi Simbiose e volutamente i crucchi Mucupurulent (il goregrind ballabile ‘umpa-lumpa’-style è una piaga dell’estremo, imho), è venuta l’ora di una delle grind bands europee che, da sempre, più mi soddisfa, i francesi Sublime Cadaveric Decomposition: avevo già avuto modo di vederli a Torino, quand’erano passati in tour nel 2008. Da allora, è uscito un nuovo disco, Sheep ‘N’ Guns, ed è entrato in formazione il drummer dei Leng T’che: la garanzia di violenza eseguita con perizia, però, non manca. Blastbeats furenti, riffing tiratissimo, ai limiti di certo brutal death, imbastardito di dissonanze e arrangiamenti di scuola Brutal Truth, il tutto condito da una delle vocals (ahimè, in inhale… ma gli SCD sono la mia eccezione che conferma la regola) più gutturali dell’ultimo ventennio, senza ausilio di alcun effetto. Benché la scaletta sia incentrata sulle ultime produzioni, c’è anche spazio per qualche brano tratto dall’ottimo Inventory of Fixtures e, sotto il palco, gli obsceniani non possono che sollevare il classico polverone post-pogo in segno di rispetto. Bravi.
Massgrav
Persi causa code ai bagni (servirebbe un report a parte per descrivere la vita sviluppatasi attorno, dentro e fuori ai cessi chimici dell’OEF; lascio alle vostre più perverse fantasie l’interpretazione di tutto questo: sappiate che l’esperienza diretta, spesso, può affossare l’immaginazione) i deathsters Entrails Massacre, mi son trovato una band che avevo già visto nel medesimo festival nel 2006, i Massgrav. Ancora svedesi all’OEF, ancora botte da orbi: crust-core vecchia scuola, con riff taglienti, pochi grooves ed una voce abrasiva ai limiti del thrash metal primigenio; nulla di nuovo sotto il sole, ma i loro trentacinque minuti di gloria i Nostri li hanno ottenuti senza troppa fatica. Consigliatissimi agli appassionati del genere.
Wormed
Ecco, finalmente, una delle band che attendevo di più; già visti live un paio di volte – e dal vivo non hanno mai tradito –, ero curioso di vedere se le loro sonorità, così particolari, avrebbero dato il meglio anche in un open air e di fronte ad un pubblico più schierato per il grind che per il brutal death metal. Grazie, però, alla loro proposta estremamente originale (operazione pressoché impossibile all’interno della scena brutal), alle loro capacità tecniche ed a pezzi che, anche quando sono storti ed arrangiati nelle maniere più assurde, sono sempre un carrarmato lanciato a 300 km/h, nonché a due piccoli capolavori dell’estremo dal titolo Planisphaerium e Exodromos, gli spagnoli hanno saputo davvero coinvolgere tutti i presenti, ora incantandoli con le loro incredibili capacità, ora facendoli pogare con rabbia. Ineccepibili, potenti. Impossibile non rimanere sorpresi: il guitar work ed il drumming pazzesco e vario; gli arrangiamenti assurdi di basso; i gutturals inumani del cantante Phlegeton… Nulla ha tradito: i Wormed si sono dimostrati una band senza punti deboli. Se, il giorno prima, i Napalm Death si sono dimostrati i vincitori emotivi e morali del fest, la palma d’oro per miglior band tout court spetta, senza dubbio, al poker d’assi di Madrid.
Cock and Ball Torture
Dopo tanta scienza e sperimentazione, sul palco dell’OEF è tornato il tempo dell’ignoranza e dell’ortodossia, col trio tedesco dei CBT. Noti ai più per i video demenziali arrangiati dai fans su YouTube, il combo crucco non ha bisogno di fare uscire dischi dal 2004 e, fondamentalmente, da allora, recita la sua parte, col suo becero goregrind danzereccio. Dal suo canto, con i CBT on stage, anche il pubblico pare davvero recitare la propria parte, ballando in cerchio, emulando i gesti dei personaggi dei vari “Grindcore Wedding” et similia disponibili on line. Senza dubbio il pit più numeroso e carnevalesco dell’intero festival. Inutili ed insignificanti musicalmente, i crucchi neanche parlano al pubblico (a parte un paio di battute, dette comunque col microfono effettato, ergo incomprensibili…) e sparano un pezzo dopo l’altro: il carnevale e la corte dei miracoli dell’OEF non potevano chiedere di meglio.
Haemorrage
A risollevare le sorti qualitative del fest, c’ha pensato un’altra band spagnola, il combo storico degli Haemorrage: da sempre fautori d’un goregrind figlio dei Carcass dei primi tre album, i Nostri sono da sempre una garanzia, anche se, alla lunga, specie dal vivo, le songs tendono ad assomigliarsi troppo ed ad essere ripetitive. Come sempre, conciati da chirurghi insanguinati e con il frontman Lugubrious a fare da mattatore – in tutti i sensi! –, gli Haemorrage sono stati accolti alla grande da tutti i presenti, lanciatisi in un pogo scatenatissimo.
Krisiun
Ho sempre detestato i Krisiun. Per carità, chi lo nega? I brazileros se la suonano di brutto, hanno un batterista centimane e blablabla e tutte quelle belle cose che, da sempre, ho letto sulle loro recensioni, sia su carta, sia on line. Ma li ho sempre trovati tremendamente piatti e prolissi. Bene. Ci voleva la quindicesima edizione dell’OEF per farmi cambiare idea: muniti di suoni stellari che enfatizzavano i loro brani, il power-trio s’è lanciato in una performance rocciosa e precisa, capace di toccare pressoché tutta la (lunga) carriera della band, con tanto di effetti speciali on stage, quando Gordo è apparso per cantare “A Sexta Extinçao em Massa”, per dare un aperitivo del massacro che sarebbe avvenuto successivamente con gli immensi Ratos de Porao. Quindi, alla terza volta che me li trovavo dal vivo, mi tocca promuovere i signori Krisiun e chiedere perdono per i miei crudeli giudizi del mio passato più prossimo, anche se, in verità, resta ancora il neo di tendere a scrivere canzoni, talora, troppo lunghe e ripetitive: anche quando il riffing è buono – e i brasiliani, con i loro sapienti arrangiamenti death-thrash, sanno scrivere buoni riff; è innegabile –, se ripetitivo ed ossessivo, rischia d’annoiare e creare qualche sbadiglio, specie quando inizia a calare il primo buio on stage…
Aborted
Penso sia inutile introdurre il combo belga a chi legge GOTR, come penso sia inutile precisare, a chi legge Glauko già da un po’, che la loro virata deathcore non m’abbia mai entusiasmato più di tanto. Per carità, anche in questo caso, si tratta di gente inattaccabile: drumming precisissimo, virtuosismi chitarristici, precisione esecutiva ai limiti dell’autismo, coinvolgimento e presenza scenica a palate (e pure quattro songs da Goremageddon per farmi prendere bene quel tanto che bastava), per uno dei moshpits più furenti dell’intero OEF. Semplicemente la loro proposta non rientra nelle mie corde; quando poi gli Aborted hanno consacrato qualcosa come sei-sette minuti di festival a riff ‘moshosi’ alternati a giretti ovvi di chitarra e patterns ed incastri triti e ritriti di batteria, confesso d’aver avuto le gonadi che raschiavano per terra, facendo scintille. Mi son parsi la classica band per prendere bene i pivelli, i neofiti e quelli che, partendo dagli Iron Maiden, difficilmente andranno oltre gli ultimi Cannibal Corpse; ma la folla e la voglia di far festa e pogare che pervade ciascun minuto dell’OEF sono state più forti delle mie convinzioni, alla resa dei fatti.
Ratos de Porao
A spurgare il palco dell’OEF dalle tonnellate di ‘poserùme’ prodotto dagli Aborted, c’hanno pensato i brasiliani Ratos de Porao, recepiti da me come una dolce pioggia fresca, dopo una settimana di peregrinazione nel deserto. Era la terza volta che li vedevo all’opera: la prima era stata quasi dieci anni fa, nel 2004, in un vecchio locale, ormai chiuso, della periferia torinese; a distanza di tutto questo tempo, gli anni sono passati, la panza di Joao Gordo è sempre più imponente ed i cinquanta – con qualche cenno di calvizie e capello bianco – si stanno avvicinando lentamente per tutti loro… Ciononostante, i Ratos si sono dimostrati ancora delle rodatissime macchine da guerra e, insieme ai Napalm Death, attualmente, nel mio cuore, si stanno contendendo la palma di vincitori emotivi e morali dell’evento: come col combo inglese, probabilmente i Nostri sono stati l’unica band in grado di catalizzare in tutto e per tutto l’attenzione degli avventori del festival, con un’invasione di palco ed un sali-scendi di crowd surfers costante e davvero impressionante! In un set d’un’ora, i quattro brasiliani hanno sciovinato trent’anni di loro onorata carriera di fast hc/trash crust, mostrando capacità ed un carisma unico, complici suoni ed adrenalina che, dal vivo, centuplicavano le potenzialità espressive di ciascuna song – avete presente i vostri pezzi preferiti? Bene, li han fatti tutti, fra “Crucificado pelo Sistema”, “Crocodila” e tante altre! Grandissimi, padroni.
Exhumed
Neanche il tempo di riprendersi dall’astonishment post-Ratos de Porao, e già di nuovo un pezzo di storia del death-grind stava occupando le assi dell’OEF: i californiani Exhumed. Capaci di convertirmi, in tarda adolescenza, alle sonorità più brutali, grazie al loro mix ferino di vecchi Cannibal Corpse, Carcass e violenza death-grind tipicamente americana, sostenuta da buone perizie tecniche, forse, oggi come oggi, non ascolto gli Exhumed come una volta, ma un loro live è decisamente un bel viaggio dal sapore amarcord. E quindi, eccomi preso bene quando non poche volte han fatto capolino i pezzi di Anatomy is Destiny, sostenuti dall’ottimo drumming di Mike Hamilton (Deeds of Flesh), passato da turnista a membro pienamente integrato della band, e, in generale, da suoni davvero potenti. Il loro show è volato liscio e diretto, con l’entusiasmo del pubblico di poco inferiore all’esibizione dei Ratos. Ottima e godibilissima live band: non perdeteveli nelle prossime date italiane del loro tour europeo!
Terminato lo show dei californiani, con l’incombenza d’una partenza al mattino presto, il giorno successivo (era oramai passata la mezza), mi sono purtroppo perso le ultime band del fest, fra le quali spiccavano i mitologici Agathocles e un combo goregrind che molti, per lo meno per i vari live che hanno fatto negli ultimi anni in Italia, conosceranno, gli Holocausto Canibal.
In generale, comunque, mi porto a casa il sorriso stampato per overdose di quell’extreme music che più amo e la certezza che, se le convergenze astrali lo permetteranno, di ritornare in quel di Trutnov.
E tu, caro Lettore, se fossi arrivato fin a qua senza odiarmi più di tanto, grazie di cuore. A tutti gli altri, consiglio di cuore una vacanza per l’OEF 2014 che, sito ufficiale alla mano, già da ora promette sorprese!
Cheers!
All pics courtesy of Stefano Bianco, Marco Losano, Umberto Salvetti, OEF Crew.