(Mordgrimm, 2012)
1. Charon
2. The Journey
3. Self Contempt
4. Chasm
5. Wife – Beater
6. Born Sick
L’impressionante (e forse preventivabile) rivalutazione dello sludge da parte della scena estrema mondiale è storia recente; suoni putridi e ritmiche rallentate hanno saturato il mercato underground degli ultimi anni, tanto da diventare, paradossalmente, quasi demodè. Il fenomeno ha indubbiamente attecchito anche in Italia anche se, come spesso accade, con tempistiche e contenuti differenti. In principio fu il post-metal: lo sludge è un genere più versatile di quanto ci si potrebbe immaginare, e la commistione con suoni puliti ha dato i risultati che tutti conosciamo. Ma i Grime non si inseriscono nel calderone post-metal: il loro non è un riadattamento delle intuizioni degli Eyehategod; il loro è un revival vero e proprio. E suonato con una certa classe, aggiungeremmo. Ma andiamo per gradi.
I Grime non sono certo un nome nuovo nella scena underground italiana: nati per mano dell’ex batterista dei The Secret, i quattro triestini hanno destato una certa curiosità fra gli appassionati sin dai loro primi vagiti, comparsi su bandcamp in tempi non sospetti; solo quattro pezzi, eppure tanto è bastato per alzare un polverone non indifferente. Neanche il tempo di entrare a far parte della scuderia Mordgrimm, che i nostri avevano già pubblicato il loro primo “vero” disco. Ma non finisce qui, c’è un altro piccolo tassello da aggiungere al mosaico: nel tempo trascorso tra l’uscita dell’lp e la pubblicazione della recensione che state leggendo, hanno aperto per i loro numi tutelari, gli Eyehategod. Non male, per una band esordiente. E proprio i leggendari junkies di New Orleans entrano di prepotenza nella proposta dei Grime: i suoni fuzzy, i riff putrescenti, il nichilismo, le tendenze auto-distruttive sono più che un’ispirazione; sono un modo di vivere la musica, forse l’unico modo di concepirla.
Non ci si ferma qui, ovviamente, perché l’oscuro revival coinvolge altri nomi altisonanti: Sourvein, Grief, Iron Monkey, Bongzilla, partecipano tutti alla marcia funebre. E allora ecco le colate laviche di “Self-Contempt”, cinque minuti di mazzate come non se ne sentivano da tempo in terra italica; l’impatto groovy di “The Journey”, che – ci scommettiamo – dal vivo diventerà uno dei loro cavalli di battaglia. Insomma, il canovaccio è questo, e si ripete (con qualche variazione sul tema) per tutti i trentaquattro minuti del disco: l’omogeneità, non tanto dal punto di vista contenutistico quanto piuttosto da quello prettamente qualitativo, è senza dubbio uno dei maggiori pregi dei Grime; i pezzi si assestano tutti sullo stesso (alto) livello, fatta eccezione forse per “Chasm”, che effettivamente sembra avere quel quid che la fa spiccare sulle altre. Tant’è vero che spesso non ci si accorge neanche del passaggio da un brano all’altro: e non è per forza una critica, anzi, per il genere non può che essere un aspetto positivo. L’impressione è di trovarsi davanti ad un unico, lunghissimo pezzo: un’esperienza devastante, un’ammorbante colata di catrame lunga più di mezz’ora.
E poco importa se, a conti fatti, i nostri non aggiungono quasi niente alla formula dei loro illustri predecessori: quando un disco suona così bene, è lecito chiudere un occhio sulla scarsa originalità della proposta. D’altronde i Grime, più che una band, sembrano dieci band messe insieme, che suonano contemporaneamente la stessa canzone: perché l’impatto è tutto, e i Grime travolgono tutto quello che gli si para davanti. Noi, di gruppi italiani così marci ne conosciamo pochi. E voi anche, siamo pronti a scommetterci.
7.0