Questo live report non può che iniziare col titolo storpiato di un film preso a prestito da uno dei miei registi preferiti: “Anche i Melvins hanno cominciato da piccoli”. So bene che qualche amante del cinema d’autore potrebbe storcere il naso, e di questo mi scuso, ma qui si parla di musica, e se dovessi riassumervi in una riga lo spirito con cui suonano i giovani di cui sto per parlarvi, non potrei trovare parole migliori. Forse questo report non farà urlare al miracolo – perché in effetti l’evento musicale a cui ho assistito di miracoloso aveva ben poco – ma per un ascoltatore in costante ricerca di epifanie joyciane sentir suonare una band di giovani promettenti in un periodo di scarse proposte artistiche da parte delle nuove leve della provincia ha tutta l’aria di un monito celeste, e penso giustifichi la pena sia di scriverne che di leggerne.
Partiamo da un presupposto: per un appassionato medio di musica sorbirsi un concerto scelto pressoché a caso è un modo consueto per ammazzare il sabato sera in provincia. Se poi la scelta di una proposta piuttosto che di un’altra è suggerita dalla vetrina di facebook, tanto meglio: dando un’occhiata veloce a organizzatori e partecipanti uno può immaginare di che morte deve morire. Ma la cosa che incuriosisce della serata di sabato 9 febbraio al Dulcamara di Mondovì (Cn) è l’accoppiata in programma: ad aprire i Flying Disk, trio noise-stoner da Fossano, e a chiudere gli Shinebox, quintetto da Perugia dedito ad un hardcore melodico che strizza l’occhio sia all’emo che al metal-core. Ad organizzare il tutto la This Is Core, label specializzata in campo melodic hc e metal-core, con sede a Genova ma cuore piemontese, più precisamente monregalese. Chi ne conosce le produzioni sa istintivamente cosa aspettarsi dall’esibizione live di uno dei suoi gruppi, ovvero tanta energia e un bell’impatto visivo, così come sa riconoscerne il trademark guardando uno qualsiasi dei curati video promozionali in heavy rotation su Blank-tv e Youtube. Il locale, come dicevo, è il Dulcamara di Mondovì. Qualcuno in loco lo definisce uno dei posti di punta dove suonare in provincia. Sarà, ma a giudicare dall’aspetto, dall’età media (bassa) e dall’interesse dei presenti (basso pure lui), ho come il presentimento che – almeno questa sera, ça va sans dire – a seguire il concerto saranno in pochi, e a goderselo ancora meno. Tanto di cappello in ogni caso all’organizzazione di Beppe Platania (deus ex machina della TIC), e un plauso ai gestori che per fortuna lasciano spazio a giovani band che promuovono musica originale.
Shinebox + Flying Disk
Dulcamara, Mondovì (CN)
09 / 02 / 2013
FLYING DISK
I Flying Disk iniziano senza far troppi complimenti e ingranano subito con “Disconnect”, una buona scelta per scaldar l’atmosfera. Le coordinate sono chiare, i suoni essenziali così come l’approccio alla musica: sezione ritmica serrata e chitarra-cartavetro che snocciola riff cazzuti e quadrati ma mai troppo. La voce rimane un tantino soffocata dalle distorsioni, ma nel marasma l’effetto risulta pure gradevole. Basta questo primo pezzo a far sopraggiungere da dietro le quinte l’ordine di abbassare i volumi, ma i ragazzi non desistono, e – nonostante un’audience freddina e indifferente – continuano cacciando fuori nientemeno che “Night Goat” dei Melvins. Chi se l’aspettava? L’ultima volta che li avevamo sentiti i tre ci avevano sorpreso con “Unsung” degli Helmet… Chissà quale altro classico ci riserveranno per il prossimo live! A seguire due pezzi scritti agli esordi ma già modificati e potenziati a distanza di poco tempo dall’uscita del loro primo demo omonimo. Sembra di essere in un altro posto e in un’altra era, e di nuovo si sente come il noise newyorkese e del midwest di fine ’80 / inizio ’90 abbia inciso sui gusti di questi giovani che, nel periodo d’oro di etichette quali la Matador e l’Amphetamine Reptile, non erano manco ancora nati: il giro di basso ripetitivo e alienante e la chitarra acida in stile primissimi Unsane di “Noise Paranoia” (che col verso biascicato ‘…this town is like a prison for me…’ ben riassume la monotonia dell’adolescenza trascorsa in provincia) e le divagazioni sabbathiane di “Stoned Jesus” da un lato mettono a segno colpi validi sul piano strumentale, mentre dall’altro evidenziano il bisogno di cantare/urlare con più grinta e rabbia per raggiungere un risultato davvero ottimale.
Prima della conclusione affidata a “I Don’t Feel Anything” viene il momento dei pezzi di recente composizione: uno strumentale intricato e senza titolo che fa pensare alle geometrie pestate di “Strap It On” degli Helmet e una stonereccia “Martina’s Shoes” lasciano intravedere i possibili sviluppi sonici del giovanissimo trio. I Flying Disk magari non avranno ancora l’esperienza necessaria per calcare il palco come delle macchine da guerra o la freschezza che un gruppo rodato acquista dopo ore e ore di prove e date dal vivo, ma di sicuro hanno le idee ben chiare su cosa e come suonare, e in un oceano popolato da ragazzini che tentano il colpaccio diventando troppo spesso emuli di altri emuli, se non altro hanno il buon gusto di non citare dei loro pari e l’innato coraggio di confrontarsi con i ‘maestri’ dei generi a cui si ispirano, quelli veri. Impresa ardua e rischiosa, non c’è dubbio, ma pur degna di lode, soprattutto se considerata nell’ottica del raggiungimento della maturità stilistica. Avanti di questo passo e perdonata qualche ingenuità di troppo c’è da scommettere su una nuova promessa della ‘Cuneo rumorosa’…
SHINEBOX
Ora veniamo agli Shinebox. Come scritto in precedenza, il quintetto di Perugia propone un potente emo-core/hardcore moderno e credo si possa collocare in quel folto insieme di gruppi italiani che negli ultimi cinque/dieci anni ha tenuto alto il nome dell’hardcore melodico nostrano, tra cui vanno menzionati i cuneesi If I Die Today, ad esempio. Affiatati e rabbiosi, i cinque si pongono sin da subito con una ginnicità e una scenicità contagiose che reggono e personalmente mi coinvolgono per i primi due pezzi, poi risultano un po’ ostentate. Uno dei due chitarristi – munito di radio-microfono – in più di un’occasione si mette a scorazzare impazzito per il locale facendosi pericolosamente strada tra i presenti e i tavolini in un fuga rocambolesca. Capita l’antifona alla terza ‘fuga’ viene da domandarsi: “Ma perché tutta questa smania teatrale? Tutti questi salti coordinati sugli ‘stop & go’?” D’accordo, lo facevano pure i NOFX, ma a questi livelli è più importante la scena che si fa o la musica che si suona? È vero: l’occhio vuole la sua parte, ma non siamo al cinema né stiamo guardando un videoclip, e sarebbe di certo un peccato che tanta enfasi posta sulla componente visiva finisse col mal celare un certo pressapochismo compositivo. Tecnicamente però i ragazzi sanno il fatto loro: la sezione ritmica è potente e collaudata – in particolare il batterista è preciso e mena da paura – anche se dopo un tot di pezzi le figure, i pattern e addirittura molti stacchi finiscono col ripetersi, dando l’impressione a chi non conosce la scaletta (e qui penso si possa far riferimento al 90% dei presenti) di ascoltare la stessa struttura ritmica reiterata per tutta la durata del concerto. La medesima cosa si può dire in generale dei pezzi, che sono sì tutti ‘catchy’ e sciorinano riff hardcore, rallentamenti metal-core e stacchi melodici ben miscelati, ma che a lungo andare si susseguono senza picchi di particolare intensità e non si distinguono l’uno dall’altro marcatamente. Tra tutte spiccano un paio di canzoni più melodiche contraddistinte da arpeggi, tra cui mi pare di riconoscere “Postcards from the ocean” e il singolo hardcoreggiante “Reason to care”. Le voci invece sembrano funzionare bene: al cantante sono riservate le linee vocali più pulite ed espressive, mentre al bassista e ad un chitarrista quelle urlate e growleggianti rispettivamente. L’alternanza non risulta ridondante e l’urlato del bassista convince assai. Nel complesso un bello show – conciso ed energico – ma la sensazione di dejà vu ha fatto capolino più volte e alla fine è rimasta l’impressione che dietro una ‘facciata’ così imponente e curata si nasconda in realtà una serie di interni un po’ troppo disadorni.