(Roadrunner Records, 2012)
1. Drag Ropes
2. Storm Corrosion
3. Hag
4. Happy
5. Lock Howl
6. Ljudet Innan
Acquista finalmente concretezza e vitalità la decennale collaborazione tra Mikael Akerfeldt, ormai storico frontman degli Opeth (nonché, fino a pochissimo tempo fa, dei Bloodbath), e Steven Wilson, eclettica mente degli altrettanto celebri Porcupine Tree. Wilson compare in veste di arrangiatore e cantante, nonché produttore, nei crediti di Blackwater Park (2001), episodio tra i più celebri nella discografia degli Opeth, nonché nel seguente Deliverance (2002) segnando quindi l‘inizio di un fruttuoso rapporto in veste di collaboratore; successivamente, supplendo alla mancanza di un tastierista in pianta stabile nella formazione della band svedese, registra le tracce di piano e mellotron nel grandioso Damnation (2003), album che apre ufficialmente il corso dei “nuovi” Opeth, sempre più aperti a sonorità acustiche e introspettive, sensibili alle fascinazioni del progressive rock degli anni ‘70, in particolar modo alle scene italiana ed inglese.
La creatura Storm Corrosion non è altro che il punto di incontro tra due personalità distinte e ben caratterizzate alle prese con soluzioni acustiche ed atmosferiche, talvolta minimali, talvolta aperte ad un feeling folk che può ricordare certa musica ambient nord europea; l’atmosfera di gravità che si tende a percepire, l’irregolarità ritmica che talvolta scaturisce da strutture basilarmente semplici, la melodia perennemente sospesa tra melanconia tutta nordica e sinistra nostalgia sono i punti di forza dei sei brani di questo lavoro.
Riscontriamo tutto questo nella traccia finale, “Ljudet Innan”: sottile ed eterea, scorre liscia tra le semplicissime melodie delle chitarre dei protagonisti sopra un tappeto di synth di grandissima qualità (scordatevi le pacchianerie di certo metal sinfonico o, peggio, pseudo-progressive): entrambi i musicisti si cimentano nel canto, da una parte il timbro caldo e “settantiano” di Akerfeldt, dall’altra il timbro più moderno e minimale di Wilson.
Nel versante opposto troviamo la opener “Drag Ropes”, debitrice senza dubbio dell’attività degli ultimi Opeth (quelli diWatershed più che di The Heritage) tra atmosfere sinistre e perturbanti e rimandi progressive rock (inevitabile, a metà brano, il paragone con uno dei brani più celebri dei Gentle Giant) soprattutto negli impasti vocali e nel modo di trattare la stratificazione dei vari livelli sonori.
Di grande interesse è anche la titletrack, intrigante “ballata” dal sapore più che mai vintage, che nonostante l’essere in bilico tra certo cantautorato (dimenticate per un attimo l‘accezione italiana di questo termine) anglo-americano e ben più complesse sonorità di avanguardia riesce ad ammaliare per una semplicità tutta wilsoniana.
Gli Storm Corrosion hanno vinto la sfida più dura: rendere Akerfeldt e Wilson independenti dalle rispettive creature principali, capaci di prove convincenti anche al di fuori dei vincoli dai quali le stesse risultano costrette. Questo non è un album per fan degli Opeth o dei Porcupine Tree in cerca di trascurabili divertissement dei propri beniamini, tanto meno il prodotto di uno sterile side project degli stessi: Storm Corrosion è un album che merita un’attenzione particolare e totalmente indipendente dal panorama artistico che ne ha determinato la genesi.
7.5