(Napalm Records, 2012)
1. Further South
2. Aeons Elapse
3. Deliverance (Shouting At The Dead)
4. Antarctica (The Polymorphess)
5. Fathoms Deep Below
6. The Giant
7. Time’s Like Molten Lead (Bonus Track)
Gli Ahab si stanno spingendo sempre più lontano dal (nautic) funeral doom degli esordi, e probabilmente è un bene per la musica estrema. Intendiamoci, The Call Of The Wretched Sea era un signor album, ma la strada intrapresa col capolavoro The Divinity Of The Oceans è nettamente più personale e originale, oltre che accessibile anche per chi non mastica certe sonorità; a scanso di equivoci precisiamo che il sottoscritto recensore, pur avendo molto apprezzato ad esempio gli ultimi lavori di Esoteric e Mournful Congregation, non si nutre di “funeral” tanto quanto di “semplice doom”, dunque se per voi i My Dying Bride son già troppo leggerini potete anche smettere di leggere.
The Giant è il terzo capitolo del viaggio lirico-musicale degli Ahab. Dopo aver incentrato il primo lavoro sul grande classico Moby Dick di Melville, e il secondo sull’affascinante soggetto storico (che pare abbia poi influenzato lo stesso scrittore newyorchese) del naufragio della Baleniera Essex riportato dal capitano Owen Chase, i tedeschi questa volta decidono di mettere in musica addirittura Edgar Allan Poe e il suo Storia Di Arthur Gordon Pym. Tralasciando però in questa sede l’aspetto letterario, per quanto questo sia essenziale nelle opere della band tedesca, possiamo dire che con The Giant Daniel Droste e soci hanno approfondito maggiormente il proprio gusto melodico, smussando sempre di più i lati “marci” della propria musica e puntando tutto su magnifici contrasti tra atmosfere sognanti, psichedeliche come mai prima d’ora, e le più classiche, magniloquenti progressioni doom cupe ed epiche allo stesso tempo.
Gli Ahab, a questo punto della loro carriera, sono collocabili in un immaginario punto d’incontro tra i loro stessi vecchi dischi, il death doom dei My Dying Bride e degli Anathema di inizio anni Novanta, gli Enslaved (Herbrand Larsen duetta con Droste in due dei pezzi migliori di questo disco, “Antarctica” e la titletrack) e i Pink Floyd o gli ultimi Opeth. Frequenti sono infatti all’interno della tracklist i richiami al progressive rock settantiano, componente questa che aumenta senza dubbio la fruibilità dell’opera; ma, a parte qualche leggero calo di tensione (“Fathoms Deep Below”), è impossibile non notare che la qualità di questo disco è costantemente molto alta, nonostante sia un monolite da settantacinque minuti. Non è cosa da poco, considerando che dopo un capolavoro come The Divinity Of The Oceans era difficile ripetersi, ma evidentemente ormai questi musicisti sono arrivati a livelli davvero invidiabili: dopo tre dischi di tale fattura, hanno davvero dimostrato di essere compositori fuori dal comune.
L’elemento che è più migliorato rispetto al precedente album (che comunque resta complessivamente un mezzo gradino più in alto) è probabilmente la voce di Droste, che già in passato aveva dimostrato di trovarsi a proprio agio con diverse soluzioni, tra un growl cavernoso e cupissimo e un pulito malinconico ed evocativo. Ma in quest’occasione il biondo cantante / chitarrista s’è davvero superato, aggiungendo al suo repertorio registri vocali ancora più emotivamente profondi, arrivando ad offrire una prova che a tratti definiremmo quasi “teatrale”: probabilmente ciò è anche dovuto all’importante contenuto lirico di cui parlavamo in apertura, ma anche senza testi in mano il canto di Daniel mette davvero i brividi. Ascoltate ad esempio la doppietta posta in apertura, “Further South” e la criptica “Aeons Elapse”, ventidue minuti di melodie ispiratissime e una “recitazione” che guida l’ascoltatore nei suoi primi passi all’interno del disco, affascinandolo e stordendolo allo stesso tempo.
In definitiva, possiamo affermare tranquillamente che The Giant per gli Ahab è il terzo centro consecutivo di una carriera caratterizzata da standard qualitativi costantemente molto alti e da album diversi tra loro che mostrano un’evoluzione musicale propria di pochi gruppi nella scena doom attuale. L’abilità di rinnovarsi senza mai snaturarsi è qualcosa che possiedono solo i grandi gruppi, e questi quattro tedeschi grazie alla loro apertura mentale hanno dimostrato di meritarsi una considerazione sempre più ampia. E pazienza se i doomsters della prima ora storceranno il naso davanti al loro sound sempre più melodico e influenzato dal progressive rock: ormai gli Ahab, a furia di navigare in mari poco esplorati, sono giunti in un luogo che appartiene solo a loro, ma siamo convinti che chi avrà voglia di seguirli nei loro viaggi musicali, non rimarrà deluso neanche in futuro. La rotta è quella giusta, avanti così.
8.0