(Kscope, 2011)
1. February MMX;
2. Norwegian Gothic;
3. Providence;
4. September IV;
5. England;
6. Island;
7. Stone Angels
Con la presenza in pianta stabile nella line-up di Daniel O’Sullivan, poliedrico musicista già in Sunn O))), Æthenor, Jorboe e altri, i lupi norvegesi tornano con il decimo album all’attivo, a distanza di quattro anni dal capolavoro Shadows of the Sun. Diverse cose sono cambiate nel frattempo: la band ha iniziato a sperimentare ancora più radicalmente, prima comparendo in uno split assieme al maestro del dark ambient Lustmord remixando un brano tratto dalla collaborazione fra Pyramids e Nadja intitolato “Into The Silent Waves”, poi iniziando a portare la propria proposta musicale on stage, dove la componente di improvvisazione (specie nel tour di quest’anno) si è molto accentuata.
Una delle occasioni per ascoltare il nuovo disco è avvenuta proprio durante il tour di quest’anno: occasione che in molti non si sono lasciati sfuggire. Forse discutibile la scelta di proporre tutto il nuovo materiale dal vivo, con l’unica eccezione di “Hallways of Always” in chiusura, ma a posteriori ritengo sia stata una scelta azzeccata. Solo un singolo era disponibile prima dell’uscita, “February MMX”, ed è proprio questo singolo a fare da apripista: abbastanza estraneo allo stile Ulver (se ne esiste uno), si assesta su connotati decisamente più post-rock e quasi pop come incedere, ma ad ogni ascolto cattura sempre di più, con un’ottima partitura di batteria, tappeti di synth perfetti e una performance vocale di Garm davvero sopra la media. In più persone hanno visto in questo brano (e nella conclusiva “Stone Angels”) una probabile predominanza nel songwriting di O’Sullivan, ma quando si arriva alla fine dell’album si comprende benissimo come sia nella natura del gruppo cercare sempre nuove direzioni musicali, che anche qui non mancano.
Altro episodio degno di nota è la quarta “September IV”: inizialmente è la voce di Garm, suadente e calda come non mai, a farla da padrone su un sottofondo di piano e di batteria, qui quasi relegata ad un ruolo marginale, ma continuando, la canzone incanala l’ascoltatore in un maestoso vortice a base di progressive e di sintetizzatori dal sapore decisamente spaziale e psichedelico, verso una chiusura che lascia letteralmente senza fiato. Si prosegue ancora con “England”, forse il pezzo che più ricorda Shadows of the Sun (assieme a “Providence”, dove compaiono come guests anche Attila Csihar e Siri Stranger), con la sua prolungata trama di pianoforte che va ad intrecciarsi con le continue pause e riprese finali. Infine, la conclusiva “Stone Angels” è la canzone che più si distingue in questo lavoro: quindici minuti in cui Daniel O’Sullivan, declamando i versi di una poesia di Keith Waldrop, si districa fra violini, clarinetti e campionamenti di rumori tipici della natura, verso la conclusione di un album che conferma oltremodo lo stato di buonissima salute di questo splendido progetto.
Voto: 8.