(2012, Roadrunner Records)
1.Levitation
2.Witchripper
3.Open Coffin
4.The Curse is a Lie
5.This Work is Timeless
6.Misfortune Teller
Dopo cinque anni di silenzio, i Down hanno scelto un modo quantomeno curioso per tornare sulle scene: niente full length, bensì quattro EP, che saranno pubblicati nel giro di un anno e mezzo. Scelta sicuramente originale, anche se discutibile sotto molti punti di vista: di primo acchito, infatti, potrebbe sembrare una malcelata operazione commerciale, di quelle che ci potremmo aspettare da un gruppo pop mainstream e non da personaggi da sempre anticonformisti come i cinque rednecks in questione. Le motivazioni ufficiali? Phil Anselmo, qualche mese fa, ha dichiarato a Billboard che gli EP sono la dimensione più adatta agli attuali Down, e che non avevano intenzione di sprecare energie con la realizzazione di un vero e proprio LP. Condivisibile o meno a livello etico, questa operazione rischia invece di dimostrarsi un boomerang dal punto di vista artistico; si, perché se gli altri tre EP si assesteranno su questi livelli qualitativi, viene da porsi una domanda: perché, invece che scrivere una ventina abbondante di pezzi tra il mediocre e il vagamente interessante, non hanno pensato bene di selezionare i migliori e far uscire un unico full-length? Vedremo se le prossime puntate della tetralogia sapranno toglierci il dubbio.
Come avrete capito, IV (o Purple Ep, che dir si voglia) non è un disco particolarmente riuscito, specie se consideriamo gli standard a cui i Down ci avevano abituato. Questo pur presentando almeno due novità di un certo rilievo: innanzitutto, al basso non c’è più Rex Brown, sostituito da Pat Bruders (Crowbar, Outlaw Order), che riesce comunque a non far rimpiangere il predecessore; lo storico bassista dei Pantera ha uno stile piuttosto peculiare, e per questo sembrerebbe difficilmente rimpiazzabile, ma Bruders non difetta certo di personalità, e svolge egregiamente il suo compito. Ma la sorpresa è un’altra, ben più evidente: il sound southern/sludge tipico dei Down passa in secondo piano, in favore di un doom di stampo classico, che si rifà ai gruppi cardine della scena angloamericana degli anni ’80 (Saint Vitus, Trouble, Pentagram). Una sterzata improvvisa, che lascia spiazzati. Perché diciamoci la verità, i Down non si sono evoluti più di tanto nel corso della loro carriera: a parte un certo alleggerimento complessivo, il filo conduttore del loro sound è rimasto sempre il medesimo, più o meno. E’ una rivoluzione vera e propria, non tanto per una questione prettamente stilistica, quanto piuttosto sotto altri punti di vista: in primo luogo, i suoni sono molto meno sporchi e più vintage, meno pieni e ‘paludosi’. Inoltre, è proprio il mood generale ad essere cambiato: i Down sembrano aver perso tutta la loro aggressività, con il risultato che aleggia su tutto il disco un’atmosfera di fiacchezza generale.
“Levitation” è il manifesto dei ‘nuovi’ Down: riff medio-lenti, a metà tra Pentagram e Saint Vitus, e vocals tipicamente settantiane, per un pezzo godibile ma un po’ troppo banale; le cose non migliorano con “Witchtripper”, brano sicuramente potente (con qualche apprezzabile richiamo ai Cathedral), che ha però il difetto di essere eccessivamente ripetitivo e uguale a sé stesso: parte in un modo e si conclude così, senza scossoni. L’episodio più riuscito è senz’altro “This Work Is Timeless”, che non a caso va a recuperare sonorità più southern per riarrangiarle in chiave doom; “Open Coffins”, “This Course Is A Lie” e “Misfortune Teller” sono pezzi piuttosto ordinari, a cavallo tra ’70s e ’80s, con richiami più o meno espliciti a Black Sabbath, Trouble e compagnia. Riff fangosi ridotti all’osso, pezzi compatti e quadrati, spesso troppo statici e inconcludenti. In ogni caso, niente che renda giustizia ad un gruppo con un pedigree di questo livello.
Certo, il disco tutto sommato scorre, anche in virtù della breve durata, ma rimane sempre un po’ di amaro in bocca, perché le idee ci sarebbero anche, ma non sono state sviluppate degnamente. L’immagine che traspare è quella di una band scarica, che si trascina stancamente faticando a trovare l’ispirazione. Si salvano solo pochi pezzi e la prestazione di Phil Anselmo, che si dimostra ancora una volta un performer eccezionale: il Purple Ep si regge soltanto sulla sua voce, che purtroppo non basta a renderlo un lavoro interessante. A questo punto, viene da chiedersi cosa ci si possa aspettare dal prossimo disco: viste le premesse, niente di buono all’orizzonte. Cari Down, la prossima volta lasciate perdere gli album a puntate, e pensate piuttosto a comporre un full-length più dignitoso e qualitativamente omogeneo. Delusione cocente.
5.5