(2012, Relapse Records)
1.Sis
2.The American’s Head
3.The Underground Man
4.Eve
5.The Diplomat
6.All Seeing Eye
7.Valley of the Geysers
8.Book Burner
9.Machiavellian
10.Baltimore Strangler
11.White Lady
12.The Bug
13.Iron Drunk
14.Burning Palm
15.Dirty Knife
16.Totaled
17.Kamikaze Heart
18.King of Clubs
19.Permanent Funeral
In un periodo in cui un discreto numero di mostri sacri della scena estrema è rimasto vittima di qualche chiaro di luna compositivo (c’è crisi, e non solo per i nostri portafogli), a rigor di logica il ritorno di un gruppo come i Pig Destroyer dovrebbe far tirare un sospiro di sollievo e accendere le speranze di molti ascoltatori. Eppure, dopo aver fagocitato e digerito dischi-randello come Prowler In The Yard e Terrifyer, ascoltando questo nuovo Book Burner si è colpiti da un vago senso di dejà-vu. Mai termine più abusato da chi si cimenta in recensioni. Qualcosa mi dice che i primi della classe, stufi di studiare cose nuove e lasciarsi trainare dalla fantasia, si siano accontentati di scrivere il loro temino seguendo le tracce delle prove precedenti, la via più facile per raggiungere la sufficienza.
Per carità, l’essenza dei Pig Destroyer c’è proprio tutta: il batterista mena come un disgraziato e i riff di Hull son sempre aguzzi e variegati (seppur inquadrabili nel contesto grindcore dove è sempre più difficile inventarsi qualcosa di nuovo, tanto più se chi li suona ha fatto scuola nel genere), ma questa volta la produzione è troppo pulita per renderli bastardi e laceranti come rasoi arrugginiti. Manco a farlo apposta ci si mette di mezzo pure la voce, meno rabbiosa e disperata rispetto al passato. E anche se, come da copione, in Book Burner spiccano un uso intelligente delle dissonanze (la brevissima title-track, ad esempio, così come “Totaled” e certi stacchi di “King Of Clubs”), alcuni sapienti cambi di registro conditi a suon di blast-beats alla velocità della luce e tappeti di doppio pedale (per fortuna o purtroppo gli stessi a cui siamo stati abituati da 10 anni), e uno spiraglio appena più ampio concesso ai mid-tempo spaccaossa, tutto questo non basta a far decollare il disco, che martella senza picchi di intensità per trentatré minuti. Riesce addirittura difficile ricordare o isolare un brano rispetto agli altri: la furia è più o meno quella di sempre, e allo stesso modo lo sono anche le idee.
Eppure questa è gente che ha strisciato per anni nella no man’s land compresa tra grindcore e contaminazioni di vario tipo (pensate solo agli Agoraphobic Nosebleed di Hull e al loro songwriting schizofrenico), e a modo suo ha scritto pagine invidiabili di musica estrema. Ma messo da parte il rispetto massimo per i bei tempi che furono vien da chiedersi: “Ha ancora senso servire in tavola la solita minestra riscaldata?” Oppure: “È eticamente corretto crescere le nuove leve che proprio adesso iniziano ad affacciarsi sul vasto e ingannevole mondo dell’estremo con gli omogeneizzati ricavati dai cadaveri del passato?” La mia anima grindcore – quella purista – bofonchia uno sdegnato ‘Of course! Why not?’. L’altra – quella che s’è lasciata alle spalle l’entusiasmo cieco dei sedici anni ma che ha ancora tanta voglia di stupirsi – preferisce piatti magari meno nutrienti, ma perlomeno più freschi. Un album per appassionati. Veramente irriducibili, però.
6.5