01. Origins
02. Vertigo
03. H(a)unted
04. Terrifier
05. Of Fear And Total Control
06. Temple
07. The Black Lodge
08. Beyond Life And Death
09. To The Villains
10. Krycek
11. Scopophobia
12. Catacombae
13. Epiphany
14. Dolph Lundgren (Will Haven Cover)
La Germaniaè terra florida di talenti musicali: ad esempio la scena metalcore mondiale è stata monopolizzata per buona parte dei 2000 da Caliban e Heaven Shall Burn, che hanno portato alta la loro bandiera natia per molto tempo; su altri lidi musicali è impossibile non citare i Rammstein e Die Toten Hosen che sono sulla cresta dell’onda da anni. Su lidi sempre metal ma con influenza sfacciatamente mathcore e hardcore si pongono i giovanissimi War From A Harlots Mouth, i quali unendo alla perfezione la lezione di band come Converge, The Dillinger Escape Plan e Meshuggah si sono fatti spazio con gli anni e hanno raggiunto una buona notorietà nel circuito underground europeo.
Nel nuovo Voyeur la differenza sostanziale con i lavori precedenti è l’abbandono assoluto (iniziato già nell’EP MMX) degli stacchi jazz che, ripresi e diversificati da quelli “inventati” dalla band di Ben Weinman, avevano reso i WFAHM più di semplici followers di un movimento math che si è fatto molto grande negli ultimi anni ma che ultimamente si è affievolito in favore del djent. Come detto non vi è più spazio per soluzioni simili e l’importanza data nelle scorse releases al “jazz” è stato sostituito dall’uso di composizioni orchestrali davvero ben orchestrate (scusate il gioco di parole obbligato). In pezzi come “Schophobia” e “To The Villains” i tempi, spesso contorti, si fanno meno estremi e più dilatati, anche mediante l’uso di melodie vocali che erano state completamente accantonate nei vecchi album e che invece si fanno preponderanti in questo Voyeur: centrale è anche il ruolo degli assoli inseriti, mai usati se non per leggeri passaggi negli scorsi anni.
L’influenza dei Meshuggah è pesantissima, e l’intro di “Temple” è un vero tributo alla band svedese che da fantasma nascosto diventa una vera e propria ombra presente in tutto il disco, specialmente per la scelta in fase di produzione di un suono molto compatto e industriale, tipico delle sette-otto corde di Thordendal e compagni. La natura di questo disco è davvero oscura e cupa, il concept sulla natura umana e il declino inevitabile della stessa è ben congegnato, e ci presenta una band molto preparata, che ha una esperienza importante alle spalle che si fa sentire anche nella scelta di scrivere un disco diverso da quanto molti si aspettavano.
Capita spesso di dire, per album con un concepimento simile, che l’accessibilità è davvero limitata se non si è familiari con controtempi repentini e pezzi a-strutturati, e questo non sarà certo un eccezione: i WFHAM si pongono come una risposta concreta al movimento djent, incorporandone le caratteristiche stilistiche (specie per le scelte in mixing e mastering) ma differenziandosi nella maniera giusta, cosa che li pone un gradino sopra a molti dei gruppi di questa scena.
6.5