C’era una volta il crossover. Aggregato multiplo di vari generi, espansi e potenziati in tutte le direzioni al fine di miscelare (talvolta sapientemente, altre volte meno) tutte le influenze, creando un risultato degno. Nato già al termine degli anni ’80, ed evolutosi durante la successiva decade, non ha quasi senso tenere il conto delle principali correnti di stile che hanno portato, fondamentalmente, a fare sempre emergere uno dei generi rispetto agli altri. Il rock e il funky con i Red Hot Chili Peppers, il rap e il rock più distorto per i Rage Against the Machine (con, forse, solo i Faith No More a fare da ideale ponte di collegamento fra le due band citate precedentemente) ed, infine, una miriade di gruppi più o meno fondamentali dai quali ha avuto origine la componente di maggioranza scaturita dall’evoluzione (e dal successivo collasso) del genere: il nu metal. In tutto ciò, gli (Hed)pe hanno sempre dimostrato di sapersi difendere abbastanza bene, mantenendo al centro di tutto le componenti dell’originalità e, soprattutto, della già citata mescolanza di influenze, vere chiavi di volta di tutto il movimento.
Autori di diversi singoli di successo (che in Italia sono giunti solo a spezzoni, ma che hanno contribuito nettamente alla loro notorietà in madrepatria; si metta agli atti quantomeno il brano di battaglia, “Blackout”), gli (Hed)pe contemporanei arrivano alla pubblicazione di questo “New World Orphans”, settimo album in studio che segue a stretta distanza la pubblicazione del live “The D.I.Y. Guys” sempre su Suburban Noize Records. Va subito premesso, ed apparirà palese agli habitué del genere, che questo disco è chiaramente concepito, dal principio fino al termine, per il mercato americano. Che cosa significa? Significa, per esempio, che è ricco di skit (tracce di semplice parlato che fungono talvolta da intermezzo fra i vari brani, e altre volte da introduzione al pezzo successivo), come impone la migliore tradizione dell’hip-hop statunitense degli anni ‘90. Fattore che fa aumentare a dismisura il numero di brani sulla tracklist. Numero che, infatti, si ferma alla spaventosa cifra di ventinove (!!!) tracce totali. E poco conta il fatto che il combo californiano abbia deciso di fare uscire il disco in tre edizioni differenti non solo per i colori della copertina, ma anche, appunto, per le tracklists, che prevedono remix, bonus tracks e brani inediti presenti in maniera esclusiva in una sola delle edizioni (a rotazione) ed assente nelle altre. La presenza di frammenti di conversazione estrapolati da spezzoni di vita quotidiana (ad esempio, i discorsi del neo-eletto presidente Barack Obama), i continui riferimenti alla situazione socio-politica americana o la creazione di brani ad hoc atti alla spiegazione e all’integrazione delle canzoni che mano a mano si vanno ascoltando, fanno sì che la comprensione totale sia limitata quasi unicamente ai madrelingua.
Risulta evidente sin da subito come sia abbastanza insensato affrontare un discorso sullo stile e sulle influenze dimostrate in questo album. È sufficiente dire che si passa dall’hip-hop all’hardcore punk, dal nu metal al quasi reggae, farcendo di tanto in tanto l’insieme con inserti di elettronica e con canzonette tipiche della musica lirica/pop. E il tutto, spesso, nei confini di un’unica canzone. Si potrebbe quasi affermare, insomma, che l’unico gruppo vagamente in linea con gli schemi di pensiero degli (Hed)pe siano oggi i gallesi Skindred, formatisi nel 2002 e con due soli album all’attivo. In definitiva, quindi, quest’album è consigliato solamente a chi può permettersi di possedere un’apertura mentale (n campo musicale) decisamente vasta e malleabile, sempre pronta alla sorpresa sonora in agguato, e per niente timorosa di potersi vedere rivoluzionare un intero brano nello spazio di pochi secondi. Questi (Hed)pe o si amano, o si odiano. Voto: 7