(Code666, 2012)
1. Putting Hearts Together;
2. Regret 2.0;
3. Pas de Deux;
4. Stop The Rain, Neuzeit Jesus;
5. Absolution Lies In Evolution;
6. Moonlight Chair (TM);
7. Breakdown 2012;
8. Birds of Prey;
9. One World – One Feature;
10. Attention Whore! (Lost In Bliss);
11. If I Could Reach The Stars…;
12. 21st Century Prophets
Gli svizzeri Blutmond nascono nel 2002 come gruppo black metal per dirigersi col proseguire della propria attività verso sonorità meno ortodosse e conformi agli stilemi del genere. Il passaggio all’etichetta italiana Code666 (Fen, Handful Of Hate e Void Of Silence, fra gli altri) ha probabilmente segnato il finale punto di svolta, con il secondo album ufficiale Thirteen Urban Ways 4 Groovy Bohemian Days a sancire anche la decisione di abbandonare definitivamente il black metal tout court per tentare nuove vie di espressione al di fuori delle definizioni di genere.
The Revolution Is Dead! continua la via della sperimentazione a tutti i costi inglobando una quantità di influenze, generi e intermezzi quasi impossibile da ricordare nella sua eterogeneità. Il disco vuole presentarsi come l’unione perfetta fra l’effluvio della luna piena e la sempre più imponente skyline delle città degli uomini per enfatizzare il lato “urbano” della propria proposta musicale, lato che viene evocato più volte tramite inserti electro/industrial alla …And Oceans che non sempre sfigurano. Forti di collaborazioni con personaggi provenienti da Eluveite, Manegarm, Nucleus Torn e Autumnblaze, i Blutmond vogliono stupire con uno stile eclettico e il più possibile vario: si passa così da passaggi profondamente swedish-melodici stile In Flames/Soilwork (“Putting Hearts Together”, “One World – One Feature” o “Pas De Deux”) e reminiscenze degli Shining (“Stop The Rain, Neuzeit Jesus”), a palesi influenze dei Lifelover di Konkurs (“Moonlit Chair (TM)”) e agli inserti jazzistici di “Absolution Lies In Evolution”, che però impallidiscono al confronto con i migliori Ephel Duath (ancora peggio se pensiamo ai King Crimson, ma non è il caso). Tutto questo risulta ancora più particolare e assurdo se pensiamo che spesso saltano alle orecchie riferimenti agli inglesi Code o agli ancora più seminali Manes del periodo Vilosophe.
The Revolution Is Dead! si lascia ascoltare senza troppi problemi, ma personalmente ritengo questo album più un guazzabuglio di influenze che altro; alcuni spunti interessanti ci sono (in particolare i passaggi più elettronici), ma il tutto risulta abbastanza disarticolato e decisamente troppo (e ripeto, troppo) accessibile e easy listening, con ritornelli e cori spesso pacchiani e abusati. Possiamo dire, infine, che già al mese di Marzo abbiamo un’ottima candidata come peggior copertina dell’anno e che di black metal qui non ce ne è traccia alcuna, nemmeno a voler cercare col lumino.
5.5