(Candlelight Records, 2011)
1. Neptune is Dead;
2. Feather and Bone;
3. When the Sun Drowns in the Ocean;
4. All Life Converges to Some Center
Compito arduo quello di recensire questo disco in un periodo in cui tutto ciò che odora vagamente di post-qualcosa viene preso per la maggior parte come oro colato; periodo in cui sperimentare o cercare soluzioni alternative (non necessariamente legate al post-core, semmai esista questo genere) sfruttando al massimo le soluzioni offerte dalla tecnica personale o volendo per forza sorprendere l’ascoltatore con qualcosa di “eclettico” pare essere l’imperativo morale di una miriade di bands immancabilmente destinate a saturare l’ambiente nel giro di pochissimo tempo. Bands che inevitabilmente finiscono nell’immenso dimenticatoio che ogni anno si arricchisce di nuove proposte. Fortunatamente gli Altar Of Plagues non fanno assolutamente parte di questi gruppi: sin da White Tomb, uscito nel 2009, i tre irlandesi mostrano una propensione verso sonorità di un certo tipo, e partendo da una base fortemente black metal mischiata ad ottimi passaggi debitori del post- di matrice Isis e ad uno spruzzo di doom, sono riusciti a dar vita ad un album di rara intensità e coinvolgimento (ascoltare “Earth: As a Womb” per credere), per poi sfociare in quello che il sottoscritto considera il loro apice compositivo, ovvero l’ep Tides (menzione d’onore in questo caso per “The Weight of All”).
Tutti questi fattori hanno creato aspettative enormi intorno agli Altar Of Plagues e, all’uscita di quest’ultimo Mammal, sembra che una fetta di pubblico maggiore si sia accorta di loro e ne tessa le lodi in ogni occasione. Ed è proprio questo il motivo per cui non è facile descrivere questa uscita in maniera obiettiva: a conti fatti, nulla di nuovo è stato inventato nei quattro pezzi che compongono il disco (il che non è assolutamente un difetto), ma ciò che vi era di precedente viene portato ad un livello più alto, un iperuranio in cui sono le atmosfere, leggermente meno grigie che in passato, a trainare chi ascolta e non solo le parti cantate o i singoli riffs. In Mammal il connubio fra ciò che viene suonato e ciò che viene percepito probabilmente raggiunge il suo apice maggiore (oltre che nella già citata “The Weight of All”), i due fattori diventano indissolubilmente legati uno l’uno all’altro, incatenando l’ignaro ascoltatore alle casse del giradischi dall’inizio alla fine. Questo ne è il punto di forza, ma non significa che sia un’uscita rivoluzionaria o inattaccabile da alcun punto di vista (cosa che accade veramente a pochissimi progetti). Sin dall’attacco di “Neptune is Dead” è difficile resistere all’impeto “emozionale” creato dai passaggi degli Altar Of Plagues, grazie ad un songwriting praticamente perfetto e ottimamente calibrato in tutte le sue sfaccettature e influenze: si passa da un inizio vagamente debitore ai Lunar Aurora, per poi virare verso coordinate più post-rock (per questa uscita i nostri sembrano aver dato almeno qualche ascolto ai giapponesi Mono), arrivando verso un finale pienamente nel loro stile, trasudante malinconia e senso di scoramento. Descrivere ogni singolo momento dei quattro brani risulterebbe inutile, in quanto non è solo ciò che è suonato ad essere importante in questo album e, nella loro evoluzione personale, gli Altar Of Plagues sembra che vogliano sempre più sfruttare questo lato della musica; “All Life Converge to Some Center” rientra appieno in questa evoluzione: presenta caratteristiche meno legate a White Tomb ma molto più vicine ad un certo tipo di post-rock (sempre i Mono, o anche certe cose dei Mogwai) che punta tutto sul gioco fra crescendo e smorzando, senza disdegnare per questo tempistiche più veloci o dinamiche, lasciando però tutto lo spazio disponibile all’atmosfera che intende trasmettere. “When the Sun Drowns in the Ocean”, il pezzo più atipico del gruppo finora, è anche quello meno assimilabile probabilmente: si parte e si chiude, salendo di intensità, con una litania cantata da voce femminile, un po’ come fecero gli Hate Forest in Battlefields, senza però raggiungerne i picchi di tristezza e atrocità, per poi proporre nella parte centrale riffs di estrazione smaccatamente doom con qualche effetto leggermente vicino ai Sun Of The Sleepless. Peccato solo che con un titolo del genere la canzone non sia stata protratta in maniera diversa, magari riconducibile a una “Neptune Is Dead” o a “Earth: As a Womb”. L’unico appunto che si può fare a un disco del genere riguarda la batteria: in certi punti risulta forse troppo in primo piano, rischiando di andare a coprire o di interferire con gli altri strumenti, ma questa sensazione sembra scomparire col proseguire degli ascolti, verso un’omogeneità generale davvero ammaliante.
A questo punto diviene obbligatorio supportare (parola quanto mai abusata, ma in questo caso più che giusta) il gruppo spendendo i soldi necessari, e sono pochi, per una copia del cd o del (doppio) vinile, perché un mp3 non è quello che permette a gruppi del genere di riuscire ad andare avanti e continuare a produrre ottima musica. Quindi, in sintesi, gli Altar Of Plagues si riconfermano come uno dei progetti migliori degli ultimi tempi, senza stare troppo a guardare al trend imperante o agli altri, ma semplicemente continuando ad evolversi senza stravolgere il proprio marchio distintivo. Probabilmente leggendo queste parole il voto sarebbe potuto essere più alto, ma sono convinto che in futuro questi tre irlandesi riusciranno a strapparmi qualcosina in più.
8.0