(La Mesnie Harlequin, 2011)
1. Casse, Péches, Fractures et Traditions
2. Cochon Carotte et Les Soeurs Crotte
3. J’avais Revé du Nord
4. Sale Famine von Valfoutre
5. Le Condi Hu
I Peste Noire ci lasciarono due anni fa con quel Ballade Cuntre lo Anemi Francor che divise la critica, causa l’apertura alle più disparate influenze fuori dall’ambito black metal e l’apparente incoerenza formale dell’album, data forse dalla presenza di brevi intermezzi strumentali o vocali.
Ebbene, in questo 2011, i paladini della temibile legion noire sono tornati, ridefinendo i confini del black metal, ampliandone le aree di influenza e parodiando quelli che sono gli stilemi classici di un genere non esattamente aperto alle innovazioni.
Fondamentale caratteristica dei Peste Noire è infatti l’attitudine folle e schizofrenica, visionaria e dissacrante, prerogativa della band dagli esordi, nonché vero e proprio punto forte della sua personalità e carriera artistica.
Effettivamente non è possibile, ad oggi, definire il sound dei Peste Noire come puramente black metal; la grande apertura stilistica, l’inserimento di elementi estranei, dal folk all’elettronica hanno permesso alla band di Valfunde di generare una creatura più unica che rara.
Ne sono dimostrazione i due brani di apertura: “Casse, Peches, Fractures et Tradions” e “Cochon Carotte et les Soeurs Crotte”.
Nel primo brano, dopo i primi minuti dedicati ad un black sporco e minimale, caratterizzato dal riffing semplice e ripetitivo caratteristico dei PN, assistiamo ad un inaspettata svolta: il tempo muta in ritmo ternario, entrano un trombone e una fisarmonica ed ecco che il brano si trasforma in un valzer perverso e malato, così come solo l’istrionico Valfunde poteva concepirlo.
Un effetto analogo è provocato dalle massive inserzioni elettroniche nel secondo brano, vero e proprio ibrido tra sonorità estreme puramente metal e attitudine EBM (a tratti, complice il mood ipnotico e alienante del pezzo, sembra di ascoltare gli Hocico o ancora il sinistro teatrino dei Das Ich).
Non mancano poi le più usuali aperture acustiche, fondamentali per quanto riguarda l’atmosfera decadente che la band cerca spesso di esprimere:“J’avas Reve du Nord”, ad esempio, presenta alcuni stacchi dove la chitarra acustica la fa da padrona, accompagnando anche le morbide note di un violoncello, oltre ad una voce femminile.
Torniamo su territori più consueti e meno sperimentali con “Sale Famine von Valfoutre”, brano rivolto ad un sound ritmicamente variabile e a tratti accostabile alla produzione dell’album precedente.
L’album chiude con “Le Condi Hu” che, tra l’intro di piano elettrico, struggenti linee vocali e suadenti note di violoncello su uno sfondo di arpeggi acustici, costituisce un vero e proprio manifesto di straniante malinconia; l’effetto diventa decisamente disturbante quando ci si rende conto che il testo non elenca altro che una serie di orribili piaghe, tra cui le più terribili malattie oltre allo stesso “genre humain”.
Parlando in termini qualitativi ci troviamo di fronte ad un album decisamente all’altezza del precedente, meno accattivante in termini puramente melodici ma ricco di idee e spunti geniali, nonché di una maggiore compattezza, come nella migliore tradizione Peste Noire.
Voto: 8,5.