(Neurot Recordings, 2011)
1. The Valley Path
La Neurot Recordings colpisce ancora pubblicando il quinto album degli U.S. Christmas, a distanza di nemmeno un anno da Run Thick In The Night e dal tributo agli Hawkwind cui hanno partecipato anche Minsk e Harvestman. Se entrambe queste uscite erano degne di rientrare nelle classifiche dei migliori album dello scorso anno, si può dire che The Valley Path aspira allo stesso risultato se non anche a qualcosa di più, pur spiazzando l’ascoltatore in quanto album monotraccia da quasi quaranta minuti di durata.
Il sentiero qui intrapreso è lo stesso che si prefissava il precedente Run Thick In The Night, ma stavolta la musica della band riesce a scorrere in maniera molto più liscia, meno cervellotica forse, ma sicuramente meno prolissa. Questo era il difetto di quell’album: tredici brani per un’ora e quindici minuti di musica sono forse eccessivi, soprattutto in un contesto come quello degli U.S. Christmas che implica un certo impegno durante l’ascolto per cogliere tutte le sfumature e le possibili influenze della loro proposta. Probabilmente è per questo che si è scelto un album monotraccia o forse è stato per riuscire a amalgamare le ispirazioni più palesi in modo migliore. Sicuramente si può dire che i tempi di Eat The Low Dogs (primo album uscito sotto Neurot) sono lontani, la dose di psichedelia generale si è radicata ancora più in profondità, senza dover per forza portare a canzoni come “Uktena” in cui lo spettro di Hawkwind e primi Pink Floyd aleggiava davvero rumorosamente. La ricetta ora è perfezionata, più subdola quasi, perché, nonostante le influenze e i richiami si assestino bene o male sempre nella solita direzione, è più difficile dividere le canzoni in compartimenti stagni in cui riscontrare prima questa poi quell’ispirazione; The Valley Path inizia e inevitabilmente arriva alla conclusione che si era prefissato, in un fluire continuo in cui sarebbe anche possibile isolare alcuni momenti, rischiando però di rompere l’incantesimo generale con uno sminuzzamento abbastanza inutile. Il cantato si è notevolmente ridotto, Nate Hall sembra aver deciso di lasciare in disparte il suo timbro leggermente blueseggiante e malinconico (nelle precedenti uscite l’ombra dei The Black Heart Procession pareva materializzarsi più volte) per concentrarsi ancora di più sul lavoro di chitarra; la presenza del violino di Meghan Mulhearn, entrata in formazione con lo scorso album, rende il tutto ancora più alienante e coinvolgente, toccando climax travolgenti in particolare intorno al 23esimo minuto e nel crescendo che porta direttamente al finale dell’album. Non mancano tuttavia episodi più vicini al passato relativo a Eat The Low Dogs o Run Thick In The Night: i primi minuti potrebbero tranquillamente essere usciti da una jam session nata per quei due album, con un incedere quasi lisergico, con qualche puntata nel folk e un immaginario da tempesta di sabbia in un deserto, oltre a qualche veloce intermezzo di ascendenza vagamente krautrock. Nonostante tutto ciò, The Valley Path non è un album perfetto e, pur avendo perso la prolissità del precedente, la scelta di tentare un full lenght di una sola traccia rende un po’ pesante l’ascolto; senza considerare inoltre alcune soluzioni già proposte nelle precedenti uscite che, risultando comunque valide, rischiano però di dar vita a quella fastidiosa sensazione di “già sentito” che sarebbe meglio evitare.
Relativamente a The Valley Path i due piccoli difetti sollevati passano in secondo piano, data la qualità ormai intrinseca degli U.S. Christmas; bisognerà quindi aspettare il prossimo album (che potrebbe arrivare a breve se le tempistiche sono quelle a cui ci hanno abituato negli ultimi 2-3 anni) per capire se sono stati una svista, oppure se andranno a danneggiare la bontà delle loro future uscite.
Voto: 7,5.