È breve, brevissimo il lavoro di The Shell Collector, ma ricco di sfumature che (mi) riportano indietro nel tempo e nello spazio. Un po’ perché il primo brano mi rimanda a certi dischi venati di grigio della 4AD, roba che non ascolto più da tempo e che dovrei andare a rispolverare, un po’ perché la seconda traccia che compone questo mini è una reinterpretazione di un classico minore degli Who, gruppo che volente o nolente ha segnato la storia del rock tutto e la vita di molti ascoltatori.
Ascolto Rain Songs per pura coincidenza in un giorno di pioggia e, pur essendo seduto tra uno stereo e il computer, chiudendo gli occhi riesco ad immaginarmi su una spiaggia del nord di fronte al lento strisciare di nuvole cariche di acqua. E l’intento della band sembra proprio essere quello: non solo il primo brano è una sorta di danza della pioggia (“A Thunderstorm Is Coming”), ma per non smentirsi il gruppo infila pure in un’ora di field recording temporalesco in coda a “Love, Reign O’er Me”, la succitata canzone scritta da Pete Townsend. Le coordinate soniche sono comunque evidenti: la prima traccia incomincia con una sezione d’atmosfera che rinchiude in sé matrici 80s ed esplode in una seconda parte serrata ed epica, tipicamente rock, mentre la cover degli Who si presenta più energica dell’originale pur conservandone i tratti romantici e vagamente decadenti.
Quello dei The Shell Collector è (prog) rock moderno così come è stato pensato e rimodellato in precedenza da Phish e Porcupine Tree, ma qui e là assaporo un vago retrogusto di band che, pur forse c’entrando poco col background del gruppo, sembrerebbero far parte della loro tavolozza dei colori: mi pare di intravedere piccole particelle elementari degli String Of Consciousness, dei Nine Inch Nails, degli implicitamente citati Dead Can Dance periodo Within The Realm Of A Dying Sun, dei Pink Floyd di The Division Bell e addirittura degli Elbow. Bella la voce – che nella rilettura di “Love, Reign O’er Me” rievoca il Chris Cornell che un po’ tutti vorremmo sentire oggi ma che purtroppo s’è fermato a Superunknown – e sobri anche gli arrangiamenti, molto – forse troppo – ‘classici’, ma comunque ben architettati, d’altronde tra le varie etichette che il gruppo s’è affibbiato c’è pure un “post-vintage rock” che in questo senso sembra dirla lunga…
Rock per le quasi-masse, dunque, intenso e ben fatto ma troppo breve per un giudizio esauriente: piovasco finale a parte (un tantino prolisso fino a sfiorare l’esagerazione) e viste le premesse siamo tutti in attesa di una prova sulla lunga distanza.
7.0