Quello che mi trovo fra le mani è il terzo album in studio dei Becoming the Archetype, band statunitense nata nel 1999 che, dopo vari cambi di formazione e di nome, decide di continuare il suo percorso sulla via dell’ormai affermato genere del christian metalcore. Basti pensare che lo stesso nome della band deriva da un passo della Genesi per far rendere conto di quale sia la linea guida di questi ragazzi. Nonostante la “popolarità” acquisita con il loro secondo album “Terminate Damnation”, prodotto dal danese Tue Madsen (Hatesphere, Maroon e, recentemente, anche i nostrani Figure of Six) il combo di Atlanta decide di rimanere su Solid State Records, e confezionare questo mix di death metal (in ovvia chiave moderna) con elementi “-core” e con una massiccia dose di tastiere e sintetizzatori.
I testi sono molto profondi, introspettivi, concentrati su cause quanto mai nobili, anche se discutibili dal punto di vista di chi, con la religione, non vuole avere a che fare anche dal punto di vista musicale. I cambi di formazione hanno inciso in maniera decisa sullo stile della band, che ora pare preferire le sopraccitate tastiere agli intermezzi acustici caratteristici dei precedenti lavori, pur rappresentati in minima parte in quest’album (“St.Anne’s Lullaby”). I vari brani scorrono abbastanza bene, susseguendosi uno dopo l’altro e mantenendo sempre alto il livello qualitativo del disco. Eppure, nonostante la presenza di buoni spunti e di riff accattivanti che ricordano talvolta le influenze più “southern” o i probabili interessi musicali orientativamente gothic metal della band, anche l’album in questione soffre della malattia cronica del genere: quel senso di “già sentito” e di poco memorabile che attanaglia un po’ tutti i gruppi della nostra era.
Tuttavia, le dovute eccezioni per brani veramente validi vanno fatte. Ad esempio per “How Great Thou Art”, capace di miscelare le atmosfere più acustiche con un intrigante riffing che potrebbe durare per diversi minuti senza annoiare. Questo è probabilmente il brano migliore del disco, in cui le parti di tastiera si inseriscono meglio riuscendo ad amalgamarsi con la struttura della canzone, senza risultare invasive e fondendosi alla perfezione con gli assoli.
Per quel che concerne il resto, invece, come già detto sono presenti buoni spunti e talvolta qualche guizzo di originalità è riscontrabile ed apprezzabile. Menzioni speciali finali per la nona traccia (su dieci totali) “Deep Heaven”, il cui inizio ricorda vagamente “Old School Hollywood” dei System of a Down (per poi evolversi in tutt’altra direzione), nonché per la collaborazione nella traccia iniziale, “Mountain of Souls”, con Devin Townsend (Strapping Young Lad), qui anche in veste di produttore.
Voto: 7