Gli ungheresi (!!!) Bridge to Solace tornano sulle scene a distanza di tre anni da quel “When Nightmares and Dreams Unite” che, a parere del sottoscritto, aveva rappresentato il picco massimo di una carriera cominciata nel 2003 e portata avanti assestando continuamente colpi convincenti, uno dopo l’altro. Forti dell’esperienza avuta con i Newborn , dai quali non si discostavano poi più di tanto, erano stati capaci di sfornare quello che sono propenso a considerare come uno dei massimi capolavori in ambito metalcore. Tranquillamente accostabile ad un “Alive or Just Breathing” (Killswitch Engage), tanto per capirci. E, nonostante ciò, difficilmente erano riusciti ad emergere dall’underground dell’est-Europa, con un tour europeo in supporto degli americani Twelve Tribes e poco altro.
A ragion veduta, tuttavia, questo nuovo “House of the Dying” non è ciò che ci si sarebbe potuto aspettare. Tristemente inferiore al precedente, eppure ad un livello qualitativamente abissale rispetto alla media delle uscite contemporanee. Il marchio di fabbrica della band, che miscela abilmente screaming a chitarre costantemente distorte e ad assoli di chiara matrice heavy metal, non è certamente cambiato. Il quintetto, insomma, è ancora in grado di sorprendere, in particolare per chi si accosta per la prima volta al gruppo. La produzione, come di consueto, è volutamente imperfetta e “old school”, come a voler dare sin da subito l’idea dell’impatto del gruppo in sede live.
Le tracce buone e ben concepite, insomma, non mancano. Eppure, non si può considerare come un passo avanti, né come una naturale evoluzione. Può, piuttosto, essere visto come un buon album di transizione, capace di coinvolgere l’ascoltatore (“Like Sheep Led to Slaughter”, “The Young and the Restless”), ma in grado al tempo stesso di rivelare i cliché non del gruppo in sé, bensì dell’intero genere. Con grandi capacità d’inventiva chitarristica, frequentemente propense a far sfociare il pezzo in potenti e ben costruiti scambi ritmici, ma anche facilmente in grado di adagiarsi sulle consuete strutture tutte terzine e rullante tipiche di tantissimi (e anonimi) gruppi.
Quando poi, nel finale, un pezzo acustico come “Kingdom of Bitter Nightmares” rende omaggio a loro stessi ed auto-cita alcuni fra i più grandi capolavori della band, il pensiero nostalgico fa ancora più breccia nelle menti dei fan. Definitivamente un discreto album “di mezzo”, sperando nel prossimo più convincente passo.
Voto: 7