Alla lunga, però…
Il sottoscritto, fa parte di quella frangia di ascoltatori che, volenti o nolenti, si sono avvicinati al fenomeno mediatico (si fa per dire) che sarebbe divenuto il “metal-core” anche grazie alle gesta del gruppo qui in esame. Il successo internazionale dei Chimaira comincia nel 2003 con il loro secondo album, “The Impossibility of Reason”, che porta il gruppo (già sotto contratto con Roadrunner Records) a suonare sui palchi di tutto il mondo, facendosi conoscere non poco. In aggiunta a ciò, in una spudorata ma vincente campagna promozionale in nome del recupero e del “back to the roots”, la casa discografica stessa decide di ristampare ulteriori copie del precedente “Pass Out of Existence” (2001), che contribuiscono a rafforzare il bacino di fans ed il bottino mediatico in tasca alla band. Da qui, tuttavia, accade l’irreparabile. Se l’album di debutto era stato fortemente influenzato dalle tonalità nu metal in voga in quegli anni, e se il successo arrivava grazie all’unione del groove metal più aggiornato (pagando pegno, sgombrando la strada a gruppi che avevano fatto scuola nel nuovo continente e che venivano giustamente ricompensati solo in ritardo in Europa; su tutti i Lamb of God), il terzo album scatena quella che, a parere di molti, è l’inizio della parabola discendente per la band di Cleveland, Ohio.
I ritmi si fanno nettamente più lenti e, nonostante i toni sempre più massicci delle composizioni, la noia spesso sopraggiunge, fino a scavalcare l’indubbia potenza sonora (ma statica!) dei brani stessi. I rallentamenti tipici tanto delle melodie più smaccatamente southern (rivisitate, riarrangiate ed adattate al contemporaneo), così come l’influenza di schemi (im)post(i) e derivanti dalla rinascita (resurrezione?!?) di un genere fino ad allora considerato e relegato a ruoli “di nicchia” (il post, appunto) si fanno sempre più sentire. Il fenomeno sembra non arrestarsi anche nel successivo “Resurrection”, che anzi conferma ed approfondisce quanto fatto. E, a quanto pare, nemmeno questo “The Infection” si discosta poi tanto dalla linea degli ultimi dischi.
Non c’è, insomma, quel ritorno alla velocità alla quale in molti speravano. Anzi, è (fatalmente?!?) portato avanti l’ideale di alternare riff a loro modo sludge, ed un cantato letteralmente mono-tono, strascicante e che, se non altro, ha il pregio di essere intuibile e decentemente sincopato. Purtroppo, però, al terzo album si rischia di toccare l’auto-plagio. Non si riscontrano essenzialmente punti di particolare rilevanza stilistico-musicale, né si intravedono sbocchi interessanti e/o rimpianti per occasioni mancate. E anche dove non mancano le premesse per una composizione una volta tanto atipica come la finale (e strumentale) “The Heart of it All”, un cambio di tempo arriva a sconvolgere i ritmi. Senza contare, infine, che di gruppi che hanno scelto di miscelare dosi di death metal con atmosfere rarefatte e tempi dispari, oltretutto in maniera spesso ben più sapiente dei Chimaira, son piene le fosse. Una buona cosa che i Chimaira hanno sempre saputo fare, invece, è l’utilizzo abbastanza sapiente degli armonici per quanto riguarda le chitarre. Oltre alle numerose chiusure “in sfumare” che presentano molti dei brani. Insomma, la concorrenza è spietata, e chi non si rinnova (o è poco convincente) è perduto. Speriamo che, a partire dal prossimo album, sappiano ritrovarsi.
Voto: 5