Certo, sono passati vent’anni. E in vent’anni capita di tutto, ma proprio di tutto. Da crisi e sconvolgimenti su scala mondiale a piccoli disastri e conquiste decisamente più personali: insomma, un delirio di cose. Uno sbaglia indirizzo di studi dai quattordici anni in poi e finisce pure col laurearsi a pieni voti, un altro diventa padre, magari anche un paio di volte; qualcuno se ne va, qualcuno si perde, qualcuno ritorna; tanti altri invece – e qui davvero si può dire in the meantime – nascono, crescono e, guarda un po’, cominciano a suonare. Cazzo c’entra ‘sta storiella nostalgica dei vent’anni, direte voi. C’entra, c’entra.
HELMET
Rock’n’Roll Arena, Romagnano Sesia (NO)
18 / 10 / 2014
Vent’anni fa usciva Betty, il primo disco ‘pop’ degli Helmet, un disco probabilmente sconosciuto a chi oggi ascolta musica pesante (e pensante), e se di sicuro non straordinario come Meantime in quanto a vendite, forse nemmeno il loro più significativo. Ma che disco, ragazzi, che disco. Chi a pochi mesi di distanza dalla sua uscita s’è pisciato addosso per i Korn o i Deftones (e per i primissimi Linea77 qui in Italia) s’è dimenticato in fretta del peso di quei riff e della quadratura chirurgica della sezione ritmica, o forse addirittura non se li è mai cagati, gli Helmet. E se da una parte il new metal ha impazzato per un lustro buono, la band newyorkese, involontaria ispiratrice di cotanto successo, ha viceversa avuto una parabola discendente che ha presto condotto allo scioglimento nel 1998. Da quella data in poi è stato il buio per sei anni fino all’annuncio della reunion con un solo membro della formazione originale, una serie di tour mondiali dal target ridimensionato e tre dischi assolutamente inutili. Molti hanno urlato allo scandalo etichettando l’operazione ‘restyling’ come una manovra biecamente commerciale, altri se ne sono fregati, i più manco se ne sono accorti. Ma se non tutto ciò che luccica è oro, neanche tutto il male vien per nuocere.
È a questo punto che ritorna in ballo il discorsetto nostalgico dei vent’anni, perché se in vent’anni gli Helmet hanno avuto tutto il tempo di invecchiare, rammollirsi e farsi (s)piacevolmente dimenticare, di certo la promessa (forse un po’ ipocrita) del riportare dal vivo un episodio discografico corrispondente ai ‘vecchi fasti’ ha fatto drizzare le orecchie di molti famelici criticoni, pronti a gustarsi una fatidica prova del nove con annesso abbonamento al pernacchio e al pollice verso. Ma occhio ai cinquantenni di oggi. Diffidate di chi vi dice che dopo i quaranta s’è bamboccioni andati a male e che si rincoglionisce nella capoccia, nell’anima e nel corpo. Ve lo dice uno che anni fa s’era già fatto fregare quando, prima a Milano e poi a Torino, aveva partecipato a due date dei tour di reunion di Faith No More e The Jesus Lizard rispettivamente, due eventi dal sapore biblico, due eventi che l’avevano fatto vergognare di avere la metà degli anni e di muoversi come un vecchio sul palco. In quell’occasione la frase “I wish you were my dad” pronunciata da un fan torinese ad un sudatissimo David Yow era stata parecchio illuminante.
E stasera è così che va. In un Rock ‘N’ Roll Arena affollato ma non troppo la tipologia di pubblico è quasi la stessa di quella di un concertone rock tradizionale, con la differenza che nessuno ha pagato per sorbirsi due ore di afonia del cantante dei Deep Purple. Trovarsi a fianco di gente, poi, che quando Betty usciva era appena nata o addirittura era ancora solo un’idea e a ultraquarantenni tra il grassoccio e lo stempiato, fa un certo effetto. Gli armonici di “Wilma’s Rainbow”, imbastiti da un Page Hamilton in forma smagliante e dai capelli rigorosamente corti ma un po’ radi e incanutiti, mi scaraventano indietro al lontano ‘anno di grazia 2000’ quando non so più con chi avevo comprato quel cd che spiccava tra gli altri per l’immagine linda e rassicurante della copertina e l’insolita plastica bianca del jewel case. Chiudendo gli occhi e lasciando che sia la musica a fare il resto mi sembra addirittura di sentire l’odore di stampa del booklet. È vero: della formazione originale non c’è più traccia, e anche la mitica ESP Horizon fucsia e sgangherata di Hamilton – il vero e proprio deus ex machina dall’89 a oggi – ha lasciato il posto ad un modello nuovo, grigio topo e anonimo, ma con l’ingresso degli altri tre in partita e l’arrivo della prima botta di suono, l’assenza di Stanier, Bogdan ed Echeverria – per non parlare di Mengede prima di lui – non si fa di certo sentire. Hamilton è un ‘direttore d’orchestra’ che oltre a sapere il fatto suo (e l’ha sempre saputo, chiedetelo anche a Glenn Branca), e muoversi a tempo snodato come Pippo, sembra anche pigliarci gusto nello scartare riff granitici manco fossero caramelle e lui un ragazzetto in gita delle medie. Qualche buontempone tra il pubblico preannuncia i pezzi-martello con un significativo ‘Ahia…’, mentre la band mantiene quanto promesso: 14 tracce infilate una in culo all’altra con potenza e precisione millimetrica, qualche ironia sugli anni che passano e una menzione all’ultimo tour del ’98 che l’aveva vista impegnata anche in Italia. I suoni in lenta fase d’assestamento sui primi quattro pezzi (monitor in particolare) non hanno impedito agli Helmet di regalare al pubblico versioni colossali di “I Know” e “Milquestoast”, e la tensione è andata in crescendo nonostante la scontatezza della scaletta. Da segnalare anche “Tic”, ignorante e brutale, “Vaccination”, contraddistinta da uno dei tanti celebri riff concentrici di chitarra, e la versione metallizzata di “Beautiful Love”, che ha dato conferma agli scettici del fatto che Hamilton sia davvero un jazzista (mancato?) nella vita che scorre al di là del metal. Una menzione a parte va invece a Kyle Stevenson, il batterista che s’è trovato nel difficile ruolo di sostituire John Stanier e che invece ci ha martellati con un drummingaltrettanto elastico e dinamico e a dir poco possente. Sticazzi.
Dopo un sincero e doveroso scappellamento da parte del pubblico ecco che i quattro tornano on stage per il secondo round proponendo un set all’altezza del primo, anzi. A parte un paio di imbecilli che per fare i fighi han chiesto a gran voce pezzi malauguratamente già suonati, la seconda scaletta è stata all’insegna del pestaggio metodico e ha fatto una saggia carrellata di ottimi episodi del passato, trascurando per fortuna gli aborti degli ultimi tre dischi post-2004. E quindi giù duro con sei pezzi tratti dal discreto Aftertaste e poi sbam: “Unsung”, “Blacktop”, “Bad Mood” e gran finale con “Rude” e “In The Meantime”. Che dire? Ma poi, avete presente i modi di fare dei rocker indipendenti nostrani? In particolare a concerto finito? Dimenticateveli. Se siete abituati al Capovilla di turno non avete proprio capito una sega. Hamilton e soci hanno passato venti minuti buoni a chiacchierare coi fan, anche i più cafoni e invadenti, e vi garantisco che quel quasi-centinaio di selfies sparati in così poco tempo avrebbe messo a dura prova anche i nervi di un hipster rodato.
Insomma, una gran bell’esperienza. Peccato solo per questi ultimi vent’anni: siamo invecchiati noi, non Page Hamilton.