(To Lose La Track, Cavity Records, Subsuburban, Small Pond, 2014)
01. 3 Juno
02. Cancer Minor
03. Scilla
04. Cariddi
05. In Vacuum
06. Spazio
07. Parsec
08. Calar Alto
Un linguaggio internazionale e sfaccettato. Musica colta e cosmopolita. Un inno alla trasversalità. Questa è la proposta caleidoscopica dei Valerian Swing, una band che si direbbe tranquillamente americana, non fosse di origine emiliana. Ma ci sarà poi così tanta differenza tra un hamburger e una tigella? Direi di no, se il cuoco sa cucinare bene e la fame del cliente è molta.
Lungi dal paragonare la musica del trio alla sanguinolenza dell’angus d’oltreoceano, mi vien da dire che è di sicuro morbida e cremosa quanto il mitico squacquerone della vicina Romagna. E a questo proposito vien anche da pensare all’azzeccato concetto di Soft Machine elaborato da Robert Wyatt e soci, dove la ‘macchina molle’ faceva non solo riferimento al libro di Burroughs, ma anche alle strutture flessuose e sfuggevoli generate dal combo inglese. I Valerian Swing sono da questo punto di vista molto dotati: la loro musica avvolge, e come un legante tiene assieme gusti e sapori assai diversi. Il trio ha infatti da poco licenziato Aurora, il successore di A Sailor Lost Around The Earth, e siamo di nuovo di fronte ad un vasto campionario di imput sonico/sonori difficili da assimilare in una sola botta eppure gustosissimi. Chi come me ha avuto la fortuna di intercettarlo almeno una volta dal vivo sa che il trio sul palco è esattamente come in studio: precisione millimetrica, svariati gradi di furia, dinamicità a profusione e tutti gli attributi del caso. Sembra che nonostante le movenze elastiche e disinvolte i ragazzi abbiano gli strumenti incollati alle mani, le bacchette alle dita e i tasti dei loro manici alle falangi. E il disco, di tutto questo savoir faire, è uno specchio impietoso e quindi positivamente fedele: l’iperattività ritmica del batterista tiene su impalcature armoniche dal piglio giocoso e colorato (l’iniziale “3 Juno” e “In Vacuum”), qui e là emergono ogni tanto dal mare di suoni voci gioiose (“Scilla”), altrove ci si abbandona a dilatazioni spaziali (l’intro di “Cariddi”), e più in generale si smitragliano pattern intricati con naturalezza disarmante per tutta la durata del disco, fino alla chiusura bella (anche se parecchio prevedibile) e in crescendo di “Calar Alto”.
L’accostamento a band quali The Mars Volta, Maps & Atlases, The Para-medics, The Psychic Paramount ma anche Minus The Bear (e come non citarli visto che a registrare e mixare è nientemeno che Matt Bayles, alla seconda prova dietro al banco col trio) salta quasi subito alle orecchie. I suoni sono un punto forte del disco, l’altro sono le architetture poliritmiche e armoniche che si snodano come rivoli d’acqua tra la rocciosità di chitarra e basso, soprattutto quando si spinge sulle parti più contundenti. Tanta la carne al fuoco anche sul versante dei linguaggi padroneggiati e messi in campo: tapping forsennati, spunti di arpeggiator che fan pensare a certa micromusic, partiture ritmiche eccelse – anche se forse un po’ frammentate tra loro ma suonate a livelli alti, altissimi – stratificazioni elettroniche rendono il disco un prodotto di caratura internazionale, e questo è di sicuro un pregio per noi italiani che queste cose in genere non siamo in grado di suonarle, ma lo affogano nel marasma di altre uscite sulla stessa lunghezza d’onda, destino comune a molti altri dischi eccelsi per non dire perfetti ma usciti un lustro se non due in ritardo rispetto ai trend americani. Ma dopotutto chi si inventa più qualcosa?
È piuttosto un’altra la pecca dei Valerian Swing, se davvero ne esiste una: quella di saper stupire con effetti speciali laddove invece – e dopo svariati ascolti – si avverte dietro ai pezzi la mancanza di una trama compatta e coesa e si sente il bisogno di uno spannung in cui far convergere il tutto, un culmine o punto focale attorno al quale far ruotare il disco intero. Arte per l’arte? Sì, ben venga, ma oltre alla bellezza anche la consistenza vuole la sua parte. In questa luce le smisurate doti compositive sembrano intaccate da un lieve deficit attentivo, quanto basta perché la difficoltà di focalizzarsi su uno stimolo/obiettivo alla volta e dargli spazio per svilupparlo e portarlo a termine – o forse chissà? di trovarlo e di soffermarcisi su? – mandi a ramengo o più semplicemente ‘out of focus’ un puttanaio di spunti fighi per non dire geniali. Nel concreto: c’è talmente tanto materiale in questo disco che non si riescono ad isolare momenti memorabili, se non un positivo alone di ‘preso-benismo’ nella composizione ed esecuzione delle parti. Il ‘divenire’ di forme e linguaggi che si percepisce ascoltando Aurora, questo ‘esperanto’ in musica col quale comunicano e s’esprimono i nostri tre, rischia – più che di non essere compreso – di apparire come un esercizio di stile, o un sovraccarico di frasi ben costruite ma prive di nessi connettivi a dar loro senso e continuità.
Un disco arioso e spaziale, quindi: un disco che mi figuro come una nube gassosa in cerca di una forma solida, forma che di sicuro finirà col cristallizzarsi, ma talmente fluido da sfuggire come aria tra le dita, e talmente bello da sedurre senza però conquistare.
7.0