(Thrill Jockey, 2011)
1. Pale Star;
2. Turiya;
3. Devotion I;
4. The Darkest Night Since 1683;
5. Temple of the Winds;
6. Midnight Tide;
7. Light Echoes;
8. Devotion II
Attivi sin dal 2007, i Barn Owl si muovono ormai con sicurezza nell’ambito drone: merito forse della loro etichetta, la Thrill Jockey Records (White Hills e Wooden Shjips fra gli altri), ma soprattutto merito delle due menti che stanno dietro a questo progetto, Jon Porras ed Evan Caminiti. Entrambi coinvolti, oltre che nei Barn Owl, anche in diversi progetti paralleli e solisti, su tutti sono da segnalare Elm e il progetto omonimo di Porras (che quest’anno ha pubblicato un ottimo album), oltre al progetto di Caminiti, che però non raggiunge assolutamente i livelli di quelli appena segnalati.
Lost In The Glare si pone come l’ennesimo tassello nel mosaico pressoché perfetto della loro discografia, ed è incredibile come i membri del gruppo riescano ad essere così produttivi senza sbagliare un colpo. Una testimonianza ne era l’ep Shadowland, uscito qualche mese fa, e probabilmente il loro apice compositivo, capace di coniugare un andamento quasi burzumiano con passaggi tipicamente kraut rock ed inflessioni drone; con questo nuovo album, invece,le coordinate cambiano leggermente, pur rimanendo su livelli altissimi. Così come per Ancestral Star, gli ultimi Earth sembrano essere uno dei progetti che più ha ispirato di più i Barn Owl per questa uscita: “Turiya” e “Devotion II” ne sono gli esempi più lampanti. Altri brani dell’album sembrano invece attingere a piene mani dalla kosmische musik privandola in parte del senso “spaziale”, ma dandole un’inflessione più desertica ed assolata grazie alle forti venature folk di cui il disco è pieno. “Devotion I” e “Midnight Tide” sono debitrici in vari modi a progetti del calibro di Popol Vuh (in particolare ad Hosianna Mantra con qualche capatina nel capolavoro In Der Garten Pharaos) e Ash Ra Tempel, fra gli intoccabili del genere. Purtroppo però, la parte iniziale di Lost In The Glare non sembra colpire nel segno come dovrebbe, forse perché ancora storditi dalla bellezza di Shadowland o perché le influenze sembrano troppo palesi o ancora perché semplicemente anche loro sono normalissimi essere umani e possono permettersi qualche svista. Il problema è che anche questa vaga sensazione di delusione sparisce sin dall’attacco a base di gong di The Darkest Night Since 1683, il brano più atipico dell’album e sicuramente quello che rimane più impresso: qui i territori prima esplorati vengono lasciati da parte per aprirsi ad un’invasione drone pura, in cui, ancora una volta, sono gli Earth (stavolta pre-Hex) a farla da padroni. Le atmosfere sin qui evocate si dissolvono a favore di un senso di inquietudine generale, che vede nel finale solo un effimero attenuarsi verso una chiusura quasi lovecraftiana a livello di mood. Forse la scelta della scaletta è stata ponderata proprio per questo, ma da qui in poi l’album è un salire continuo.
Non c’è altro da dire a riguardo: i Barn Owl si riconfermano una splendida realtà a cavallo di più generi, capaci di spaziare fra influenze molto diverse con una facilità disarmante senza scadere nelle scelte fatte “a tavolino”, e soprattutto capaci di coinvolgere chi ascolta con ogni singola nota o sovrapposizione. Qui siamo di fronte ad uno dei dischi dell’anno che, assieme al già citato Shadowland, va a formare una doppietta che difficilmente altri potranno eguagliare.
8.0