Mellow-core?!?
Prima ancora di fare uscire il nuovo album, gran parte del pubblico sapeva già come sarebbe andata a finire. Le critiche fioccavano, ed il primo singolo “Reckoning” divideva gli ascoltatori in almeno due schieramenti: coloro che, dopo aver criticato a prescindere, sostenevano di poter supportare le proprie tesi disfattiste proprio grazie al singolo anticipatore dell’album, e coloro che, pur non rimanendo esterrefatti, credevano ancora nell’operato della band.
I Killswitch Engage nascono nel 1998 in Massachusetts, ma è solo nel 2002 che raggiungono la fama mondiale, tramite il tormentone di “My Last Serenade”. Possono essere così definiti fra i principali fondatori del genere metal-core, ed i loro album raggiungono cifre che per qualsiasi altro gruppo underground significherebbero, appunto, l’uscita dai bassi profili e l’approdo allo show business ed al mainstream. In questa breve cavalcata di popolarità, tuttavia, la band perde per motivi famigliari Jesse Leach, voce peculiare e molto eclettica. Il sostituto, Howard Jones non fa certo rimpiangere il suo predecessore in fatto di tecnica, ma il suo è tutto sommato un approccio diverso al modo di esprimersi e cantare, e forse proprio questo non convince tutti i fans. Nonostante ciò, i KSE confezionano hits anche nei successivi due album, con un buon successo di vendite e tour in tutto il mondo. Quello che manca, in ogni caso, è una nuova, grande e definitiva hit, che vada ad oscurare il recente passato e si (im)ponga come canzone simbolo di un nuovo inizio. E se, dopo due album, questo pezzo in grado di poter sbloccare la carriera del gruppo (che, di per sé, non ha fondamentalmente nulla di effettivo da dover dimostrare al mondo) non arriva, ecco che comincia ad insinuarsi nell’umore dei fans un sottofondo di presunta sfiducia. Tanto più in un mercato musicale del metal che vede sempre più spostare il baricentro dell’attenzione sulle naturali derivazioni dello stesso metal-core (vedasi death-core, br00tal, nwoahm) e che lascia poco spazio ai supposti sbagli ed ai contrattempi.
Dopo un “As Daylight Dies” oggettivamente mal promosso e, forse, dalle potenzialità leggermente inferiori alle capacità del gruppo (ma, in ogni caso, ad anni luce dalla media qualitativa del genere), i KSE ritornano a tre anni di distanza con questo self-titled dai toni fondamentalmente diversi rispetto ai precedenti lavori discografici della band. E, tuttavia, sempre riconoscibili. I toni, infatti, si smorzano, dando un notevole spazio alle parti melodiche ed ai cori più scanzonati (“A Light in a Darkened World”, “Take me Away”), e portando il tutto su livelli ben più orecchiabili. La scelta del singolo iniziale è piuttosto azzeccata, proprio perché in grado di essere al tempo stesso un pezzo ben costruito e che dà bene l’idea di quale direzione abbiano intrapreso i nostri. I riff del solito Adam Dutkiewicz confermano la sensazione di trovarsi di fronte ad uno dei più geniali creatori di melodie per quanto riguarda il genere proposto. Insomma, in generale la band porta a casa un altro risultato che, se da un lato può dare al fan medio l’idea di una band sull’orlo della rassegnazione e dell’auto-plagio, dall’atro riesce a convincere proprio grazie alla sua non immediatezza.
La tentazione, ad un primo ascolto, di liquidare il tutto come “l’ennesimo album di una band ormai al tracollo” c’è stata, eccome. Ed invece, ascoltandolo più volte e mettendo una volta tanto da parte i pregiudizi generali avanzati dalla cosiddetta “critica”, si può notare come proprio il fatto di proseguire sulla propria (nuova) strada, evitando di andare a ricercare forzatamente la “next big hit”, sia il miglior modo per tagliare i ponti con il passato e ritagliarsi la propria (nuova) fetta di mercato. Una scelta tutto sommato coraggiosa per una band che non può ancora permettersi i colpi di testa delle più grandi rock band e che, tuttavia, riesce ancora a sorprendere.
Voto: 7