Nei giorni precedenti al concerto avevo mantenuto ben salda l’idea di boicottare l’evento in sé (in piena sintonia con le tanto discusse Olimpiadi di Pechino). Non per chissà quale motivo politico-ideologico, quanto per questioni personali, perché avevo già avuto l’opportunità di vedere sul palco entrambe i gruppi più di una volta, e per l’alto prezzo del biglietto d’ingresso. Ad ogni modo, come al solito in queste occasioni, è stata l’avidità ad averla vinta su qualsiasi altro sentimento, e così…
Quasi in ritardo sui tempi classici, che imporrebbero una presenza “precauzionale” anticipata, alle 22:00 circa faccio il mio ingresso all’interno di un Velvet nettamente gremito, anche se ancora non del tutto stipato. C’è grande attesa per l’unica data italiana di quelli che potremmo definire due fra i gruppi a più alto impatto e riscontro popolare nel filone metal-core, ovvero As I Lay Dying e Killswitch Engage. Organizzato, come di consueto, dall’ormai onnipresente Hard Cash Management, l’evento è l’(ennesima) occasione per raggruppare intorno a sé frange di vecchi e nuovi amanti di questo genere. La varietà di accenti e di parlate, neanche fossimo a Camden Town, fa capire che c’è chi è stato disposto a fare diverse centinaia di kilometri pur di non perdersi questa occasione. I presupposti, dunque, ulteriormente legittimati dall’occasione in sé e dai 22 (ventidue!!!) euro a cranio spesi/estorti alla cassa ad ogni singolo partecipante, ci sono tutti.
L’apertura è affidata ai Carnera, gruppo italiano che propone una sorta di stoner rock con contaminazioni soul alternate ad elementi più elettronici e che richiamano, per certi versi, i Muse nelle loro tinte più “incattivite”. Lo show proposto è sin da subito convincente e riesce a coinvolgere una buona fetta di pubblico che applaude ed apprezza. Da segnalare, in particolare, la tenuta scenica del frontman Filippo Graziani (figlio del compianto Ivan Graziani), nonché le sue doti tecnico-vocali. Nonostante la preparazione dei componenti, però, lo show è minato da alcuni problemi tecnici, che però non sono che il preludio di quanto succederà, anzi, si sentirà in seguito. Lasciato il palco dopo circa 25 minuti, comincia il montaggio dell’attrezzatura destinata agli As I Lay Dying.
Il gruppo di San Diego, dopo aver solcato i palchi italiani per una manciata di date nei primissimi mesi del 2008, ritorna al Velvet senza sostanziali novità (se si eccettua il side-project del cantante, Tim Lambesis, gli Austrian Death Machine, recensiti su queste stesse pagine), ma forti della buona schiera di fans italiani sempre pronti a vederli in azione. Nel giro di 20 minuti, dunque, salgono sul palco, acclamati come sempre, alternando pezzi estrapolati dall’ultimo lavoro discografico (“An Ocean Between Us”), così come pezzi diventati ormai dei classici del loro repertorio (“94 Hours”, “Forever”, ed un’intera carrellata di hit del precedente e multi premiato “Shadows Are Security”). La preparazione tecnica è, come al solito, indiscutibile, così come la presenza scenica e il coinvolgimento che riescono a suscitare nel pubblico che si trovano di fronte. Eppure, se si ascolta (nemmeno troppo) attentamente, e soprattutto se li si è già visti in azione, si può notare come il cantato del suddetto Tim Lambesis ceda un po’ nelle parti più basse (growling), risultando spesso un po’ vago e carente. A questo, come già detto, si aggiungono i problemi tecnici: i suoni sono spesso impastati, le basse frequenze vengono sparate a mille risultando quasi fastidiose (e non solo a chi era fra le prime file). La cassa della batteria è mal tarata, arrivando talvolta a coprire gran parte degli altri strumenti, altre volte a non farsi nemmeno sentire poiché istintivamente abbassata di troppo. Si ha quasi l’idea, nonostante il sound-check precedente, che le prove siano state fatte un po’ di fretta. E, nonostante gli As I Lat Dying ci mettano una pezza offrendo una prestazione buona, il concerto in sé non può che riuscire “a metà”. Un’altra pecca a mio avviso sconsiderata è la durata: circa 30 minuti, attimo più, attimo meno. E qui si apre una riflessione: ci può stare che molti fra i gruppi metal(-core) di oggi giorno suonino in media per un tempo minore di tanti esponenti della “vecchia guardia”, ma quando si allestisce uno show del genere, in cui bene o male entrambe i gruppi godono di un alto livello di fama e stima paritario, non ha senso affrontare discorsi da “gruppo spalla”. Di conseguenza, non ha senso affidare il palco per soli 30 minuti a quelli che, a ragione, vengono ritenuti da tutti come veri e propri co-headliner, con uguale diritto (anche, e soprattutto, a livello di tempistiche) di affrontare uno show “classico” per la loro durata media (che, in questo modo, sarebbe quasi raddoppiata). Il tutto a maggior ragione (sono pronto a sostenerlo fino in fondo) se considerato il costo per il pubblico.
Nessun encore, dunque, e nuovo cambio di palco. Nel frattempo il pubblico, quanto mai sudato, è allietato da frammenti di storia della musica estrema (“Mouth for War” e “Walk” dei Pantera, fra gli altri) che fanno da sottofondo al montaggio dei tecnici. Un’altra ventina di minuti, ed ecco i Killswitch Engage, da Westfield, Massachusetts, U.S.A. . Partono subito con due estratti dall’ultimo album ( “As Daylight Dies” , Novembre 2006), per poi spaziare fra i grandi classici dei due album precedenti, che li hanno fatti conoscere al mondo. Nello spazio di un’ora (circa) viene coperta gran parte della carriera, proponendo però praticamente solo le hit più famose. Il concerto, neanche a dirlo, è anche in questo caso funestato dai problemi tecnici, ulteriormente amplificati dal fatto che i volumi, nel frattempo, siano stati alzati ancora di più, se possibile. La voce esce dalle casse a frequenze altissime, rendendola quasi inascoltabile. La cassa, nel frattempo, fa tremare il pavimento ad ogni colpo, e anche la strategia di porsi a diverse decine di metri dal palco (ovvero quasi in fondo alla sala del locale) non funziona poi tanto. Qualche errore tecnico alle chitarre e qualche stonatura del massiccio Howard Jones si fanno sentire, e la presenza scenica del (giustamente) osannato chitarrista Adam Dutkiewicz (dedito ad infarcire ogni brano con numerosissimi armonici), o lo stage-diving finale dello stesso Jones, non possono comunque cancellare certe imprecisioni. Un piccolo encore, e il finale è affidato al cavallo di battaglia “My Last Serenade”, seguita a ruota dalla cover di “Holy Diver”, di Dio.
L’impressione finale, però, è quella di trovarsi davanti ad una prestazione nella media, con qualche sbavatura che, unita ai problemi imputabili talvolta all’impianto del locale, ma molto più spesso al fonico delle bands, lascia un po’ l’amaro in bocca. Nonostante questo, la gente se ne va soddisfatta, cosciente del fatto che non capita spesso l’occasione di vedere nella stessa serata due gruppi di questa caratura. Promossi, dunque, ma tenuti sott’occhio.