Quando gli Otep debuttarono sul mercato discografico, gli Slipknot avevano appena rilasciato l’album che li avrebbe portati al successo mondiale. In sostanza, dunque, spianando la strada per il successo di tanti gruppi che mescolando fra loro metal e frammetti di hip hop, urla e beats, avevano risvegliato il crossover. La scelta di una voce femminile dietro al microfono, capace di raggiungere profondità gutturali notevoli ma anche di sussurrare dolci melodie, dava agli Otep un punto in più rispetto a molti altri gruppi anonimi. Una versione arrabbiata dei Guano Apes, che non aveva paura di niente e nessuno e non lesinava nel trattare apertamente tematiche sociali (per esempio nell’EP “Jihad”). Il primo album (Sevas Tra), seppur contenesse buoni spunti contribuì solo ad un lancio parziale della band, ma regalò loro la possibilità di qualche tour di supporto a famose band del panorama metal. In seguito, nonostante musicalmente la band non producesse nulla di essenzialmente sensazionale, la fama è andata crescendo. Ed eccoci al quarto album in studio, questo “Smash the Control Machine” che si divide piuttosto omogeneamente fra pezzi violenti e “ballate” in cui vengono sfruttate le indubbie capacità della cantante Otep Shamaya.
Il fatto è che, alla lunga, l’idea di utilizzare sempre lo stesso stratagemma stanca un po’. E se anche le doti strumentali ci sono tutte (o meglio, fanno il loro dovere), e la classica immagine della donna che grugnisce con rabbia primitiva è un intramontabile cliché, beh, l’album non è che si noti certo per coinvolgimento. Intendiamoci, vi sono buoni pezzi che chiamano in causa i soliti punti di riferimento e provvedono a mantenere stabile la credibilità della band. Ma troviamo anche insensati intermezzi come i quattro minuti di “Kisses and Kerosene”, che per quanto arrabbiati e minacciosi non possono che portare allo sbadiglio già al secondo ascolto (se non, addirittura, al termine del primo) e che rappresentano una esca perfetta per il tasto “skip” del vostro lettore. Così come alcuni brani che, come detto, per quanto tecnicamente validi, spezzano inevitabilmente il ritmo in crescendo che stava prendendo quota. Di buono, invece, ci sono proprio i pezzi che ti aspetteresti dagli Otep. Quelli in cui il cantato rap si unisce alle chitarre pesanti, e talvolta addirittura alle melodie southern alla Pantera (“Smash the Control Machine”), e ancora gli inni politici (il singolo “Rise, Rebel Resist”), ne sono un esempio.
Allo stesso tempo, è proprio la deriva più politicamente femminista di “Ur a WMN Now” a porre un macigno piuttosto pesante sul finale dell’album, che alla decima traccia si vede proiettare questa suite che non sfigurerebbe in un qualsiasi album di pop acustico stile pianoforte-voce. In definitiva, in un mercato saturo di cloni la scelta di sperimentare è lodevole e necessaria, in certi casi. Tuttavia, la decisione di mescolare fra loro una aggregato tanto disomogeneo di canzoni potrebbe risultare un po’ indigesto all’ascoltatore medio (quello che quando cerca rumore va giustamente a cercare solo quello, senza badare più di tanto alla eventuale validità di ciò che circonda la confusione). Forse è meglio cercare altre, possibilmente nuove, strade.
Voto: 5