I Soilwork hanno più di un motivo per festeggiare. Innanzitutto, questo nuovo album segna, a livello temporale, il raggiungimento di un traguardo importante: i quindici anni di una carriera che, cominciata a buoni livelli, è andata mano a mano in crescendo, fino ad arrivare ad importanti traguardi quali festival europei ed intercontinentali. In secondo luogo, sempre questo album sancisce il ritorno dello storico chitarrista e membro fondatore Peter Wichers. Assentatosi per tre anni, subito dopo la realizzazione di “Stabbing the Drama”, durante i quali ha collaborato a tour in sostituzione dell’infortunato Adam Dutkiewicz (Killswitch Engage), e si è trasferito in maniera più o meno stabile negli Stati Uniti. Ritorno che non può che giovare alla band, che ritrova così uno dei tasselli principali della formazione, presentandosi se possibile ancora più sicura rispetto a quanto non fosse nel precedente “Sworn to a Great Divide”. Infine, una buona ragione per gioire è data dall’assoluta validità dell’album che abbiamo per le mani.
Che il fatto di fondere il death metal melodico di stampo svedese (dopo tutto, la vicinanza alla famigerata Gothenburg che ha dato i natali al genere non è soltanto topografica) alle ritmiche tipiche di un metal americano degli anni ’90 sia sempre stato una loro caratteristica, questo è fuori di dubbio. Ciò che è cambiato, tuttavia, fra il passato ed ora è che una commistione strutturata in questa maniera (ossia fra generi, ma anche fra generazioni) è diventata di moda e vede diversi seguaci. In altre parole, chi sono i Soilwork se non i padrini di quello che oggi viene definito come modern metal? Definizione quantomai vaga, e con un tocco di futuristico, che nasconde dietro di sé nient’altro che una buona dose del suddetto death metal melodico, un pizzico di di groove metal (si attualizzino i Pantera e si troveranno le radici di buona parte del metal odierno) e una buona dose di melodie spesso accompagnate da soffici tastiere. Questo, tuttavia, non è abbastanza per distinguersi dalla massa. A maggior ragione quando tutte le logiche di mercato saltano e, a meno che non ci si chiami Metallica o Iron Maiden non esistono capostipiti a cui prestare rispetto e con pagnotta garantita. E allora i Soilwork come riescono a spuntare sugli altri? Ancora una volta controllando nel baule dei ricordi, e riscoprendo la valenza degli assoli, tanto ostracizzati da parte di altre band e così calzanti in questo caso. Un assolo fa la differenza in molti dei brani contenuti in questo “The Panic Broadcast”. È il caso di “King of the Treshold”, o di “The Akuma Afterglow”, le quali prive di queste chicche diventerebbero pallidi esempi di monotonia, tipiche di tanti cloni. La valenza di un assolo all’interno di un brano, infatti, è di portare la canzone stessa ad un culmine, un punto di esplosione creativa che dia una piega decisiva alla canzone. Allo stesso modo, l’utilizzo di cori dà la possibilità all’ascoltatore di ricordare più facilmente un brano, creando quell’idea di easy listening che, se ad alcuni può far storcere il naso e far gridare alla banalità, alla maggior parte degli ascoltatori piace. È il caso, far le altre, della ballata “Let This River Flow”, che al suo interno contiene entrambe e che risulta come uno dei brani più convincenti dell’album.
Il disco, diviso in undici tracce per circa cinquantadue minuti di durata, trascorre in maniera decisamente buona e si fa riascoltare con piacere. Forse mediamente più lento dei precedenti se messo sul piatto della bilancia, ma non per questo meno valido.
Voto: 8