Immaginatevi un immenso parcheggio chiamato “Musica”, dove ogni vettura arriva e lì si deposita, andando ad occupare una fetta dello spazio disponibile e rimanendovi per tempi variabili. Dopo anni ed anni che le macchine più longeve rimangono ferme nella loro posizione, cosa succede a chi viene a cercare parcheggio e vorrebbe sostituirle?
I Warbringer si formano nel 2004 a Los Angeles, ma il nome originale è Onslaught. Pochi mesi dopo, però, scoprono l’esistenza di un gruppo omonimo, peraltro che suona lo stesso genere ed è inglese, e quindi decidono di cambiare. Ed, evidentemente, questa scelta porta a loro fortuna. Registrano infatti un paio di demo, un E.P., e poi, in seguito ad un concerto nella natia L.A., vengono reclutati niente meno che dalla Century Media Records (la quale, peraltro, era lì per assistere all’esibizione di un altro gruppo). Questo che abbiamo fra le mani è il loro secondo album, che segue a breve distanza il debuttante “War Without End”, registrato appena l’anno scorso. Dieci brani potenti, mai fermi nemmeno per un istante e che però soffrono anche di qualche difetto.
In quaranta minuti circa di durata, infatti, i paragoni che vengono alla mente sono tanti, forse troppi. E, purtroppo, non sono nemmeno più di tanto velati. Lo stile del gruppo è un thrash metal ripescato direttamente dagli anni ’80, tecnico e farcito di assoli quanto basta per scatenare l’headbanging e tenere il ritmo con passione e convinzione, ma anche consapevole della voluta ignoranza esibizionista e della tendenza all’auto-plagio che ha caratterizzato tutto il decennio. Sin dai primissimi secondi, infatti, si capiscono benissimo i punti di riferimento della band californiana, che sono su tutti i Kreator e, per certi versi, gli Slayer. Il guaio (si fa per dire) è che la voce del buono ed indubbiamente dotato John Kevill ricorda veramente tanto l’ugola infiammata di Petrozza. E se, da un lato, ciò non può che lusingare, si capisce bene come il fatto di riuscire a trovare una via personale di fare musica sia minato in partenza da questo pregio ed handicap al tempo stesso. Quando poi si cerca di virare un po’ la tonalità del cantato, si ricade inevitabilmente in un avvicinamento quasi imbarazzante allo stile di Tom Araya, e allora si è punto e a capo.
L’unica forma di stacco è data dalla settima traccia, la strumentale “Nightmare Anatomy”, mentre tutto il resto del disco è un’alternanza senza sosta di riff brutali e veloci, accompagnati con costanza maniacale dalla cassa dell’ottimo Nic Ritter, certamente in grado di difendersi dietro alle pelli. Come detto, coinvolgenti, certo, ma avendo la possibilità di ascoltare gli originali, chi si prende la briga di scoprire un nuovo gruppo? I fan più accaniti del thrash?!? Nah…troppo tradizionalisti e conservatori. Tutto il resto del popolo metal?!? Dubito fortemente.
Peccato, perché se fosse uscito venticinque anni fa questo disco avrebbe potuto fare a gara con i mostri sacri dell’epoca, riciclandosi e facendosi valere anche in Europa. E invece, ancora oggi, Kreator, Slayer e compagnia bella difendono tranquillamente il loro posto auto.
Voto: 6