(Peaceville Records, 2011)
1. The Barghest O’ Whitby
Appena ho visto l’artwork dell’ultima fatica dei My Dying Bride (a quanto pare instancabili, in questo 2011) mi è tornato alla mente un racconto di H.P. Lovecraft, uno dei più perturbanti, dei più angosciosi, neri e blasfemi fuoriusciti dalla penna del grande scrittore di Providence: The Hound (1922); lo sfortunato protagonista, per una serie di altrettanto infausti eventi, è perseguitato dalla costante presenza di un enorme quanto sinistro mastino nero, dalla quale sarà accompagnato fino ad un terribile ma prevedibile destino.
Quando ho poi constatato che il Barghest di cui si parla non è altro che, secondo la tradizione medievale, tra bestiari e superstizione, la manifestazione dei nostri peccati, dei nostri rimorsi e del nostro lato più oscuro sotto forma di un enorme cane del colore della notte, i conti sono tornati.
Un’unica traccia, che in poco meno di mezz’ora si districa nella narrazione (in prima persona, in forma di confessione: purissimo stile lovecraftiano) di immagini sinistre, accompagnate da elementi immancabili ma a tratti prevedibili (la pioggia, l’oscurità, la desolazione) veicolanti però una certo coinvolgimento emotivo, forse incoraggiato dall’incedere atipico del brano nella sua lunghezza da cortometraggio.
Evinta aveva piacevolmente spiazzato nella sua costruzione articolata, obliqua e arabescata; la ricchezza di immagini sonore, i timbri ammorbiditi, il riaffiorare di melodie note facevano leva sulle emozioni più superficiali; ascoltando questo Ep ci si può rendere conto di come nell’album appena citato mancava l’abissale senso di desolazione, la scarna ruvidezza del lato più oscuro dei My Dying Bride: in un certo senso, la loro vera essenza.
The Barghest O’Whitby, in questa direzione, si colloca agli antipodi di Evinta, il cui sterminato minutaggio (la versione deluxe contava ben tre dischi) si confronta con la mezz’ora scarsa di questa piccola gemma “gotica”, spoglia di tutte le ricche vesti che avevano caratterizzato il lavoro precedente.
La musica che ascoltiamo in questi ventisette minuti è essenziale, lineare, tematicamente costante, ritmicamente ossessiva nella lentezza alienante in cui procede; stilisticamente possiamo tranquillamente parlare di una componente doom che prevarica su quella goth, scelta coraggiosa e totalmente condivisibile: in questo senso Evinta rappresentava esattamente il lato opposto della medaglia, tra vocalità di impostazione lirica e orchestrazioni semplici ma non scevre da una certa pomposità (e, talvolta, ridondanza).
The Barghest O’Whitby è un buon Ep, equilibrato nel procedere della sua unica traccia, perfetto esempio di costruzione musicale articolata ma scorrevole; la durezza quadrata del doom, l’emancipazione dai cliché del gothic, l’atmosfera sinistra ma raramente banale rendono il lavoro piacevolmente comprensibile.
Per quanto Evinta sia un lavoro da apprezzare, questo Ep dona la sensazione di un necessario ritorno a casa dopo un eccitante ma lungo viaggio.
7.0