(Self released/independent, 2011)
1. The Place
2. It Ends Tonight
3. Slaves Of Freedom
4. Me And You
5. The World Belongs To Us For A Reason
6. Interlude
7. Clockwork Apple
8. Velociraptor Dance
9. Betrayer
10. Freestyler (bonus track)
I Device sono una giovane band romana che col presente “The Birth”, album interamente autoprodotto, arrivano all’agognato primo parto discografico e, a tale proposito, nasce spontaneo fare una sentita e doverosa constatazione: è veramente triste e per certi aspetti vergognoso che band italiche originali (Murder Therapy) o semplicemente al passo col trend musicale del momento, come gli stessi Device appunto, facciano una fatica titanica per questioni di produzione, o peggio ancora di distribuzione, per le loro sudate pubblicazioni, sobbarcandosi quotidianamente sacrifici di varia natura, ma principalmente di carattere economico, considerando appunto che basta attraversare la Manica o le Alpi e non necessariamente l’Atlantico per vedere migliaia di band fotocopia ormai “lontane” dal primo parto discografico ed impegnate nei rispettivi tour internazionali.
Ma veniamo a noi: la band, come detto, è una di quelle sicuramente attuali e sforna un metalcore dove paragoni con band quali i britannici Bring Me The Horizon e Architects, si sprecanoma ma lo fanno col nobile (e difficilissimo) intento di mescolare diversi generi come il crossover, l’hardcore punk e addirittura la techno come nell’iniziale “The Place” o in “Betrayer”. Sono parallelismi celanti influenze che alle volte sanno di scopiazzatura, come la presenza di cleaning vocals alla Chester Bennington (Linkin Park) o soprattutto alla Sam Carter (Architects) in songs quali “Me And You” o “It Ends Tonight”.
“The Place” racchiude in sostanza l’intera proposta dei nostri: strofe estremamente metalcore sia per la presenza di breakdown sia per cori a più voci di chiara scuola Emmure, un incedere di riff serrati che quasi richiamano gli immortali Motorhead, preziosismi techno ed un ritornello che sembra uscito da un b-sides dei già citati Linkin Park.
Stiamo parlando di una band che poco aggiunge al calderone metalcore a cui, come già accennato, non possono non riscontrarsi le critiche di troppe idee miscelate in modo spesso confuso e la presenza di cleaning vocals troppo abusate sebbene il genere in questione ma, come detto ad inizio recensione, i romani sono al disco d’esordio e dimostrano di avere delle buone competenze compositive e tecniche che possano far presagire un futuro artisticamente valido.
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