(Southern Lord Recordings, 2011)
1. Old Black;
2. Father Midnight;
3. Descent To The Zenith;
4. Hell’s Winter;
5. Angels Of Darkness, Demons Of Light I
Con ormai solo Dylan Carlson come membro presente sin dagli esordi, il progetto Earth continua ad essere prolifico e raggiunge l’obiettivo del sesto album registrato in studio.
Dopo la grandiosa uscita dello scorso anno, A Beaurocratic Desire For Extra Capsular Extraction, che ci proponeva una versione degli Earth ormai dimenticata, ovvero un progetto cui solitamente si attribuisce l’invenzione del drone doom, genere poi esploso qualche anno dopo con la venuta di Sunn O))) e compagnia rumorosa; quest’anno Carlson ritorna con le sonorità a cui ci ha abituato ormai da un bel pezzo, dall’uscita di quel capolavoro di album che è Hex: Or Printing In The Infernal Method datata 2005, quindi un doom ovviamente lento, ma con una connotazione e un’atmosfera uniche, quasi “desertiche” si potrebbe dire. La formula ormai è assodata, partendo dal già menzionato Hex, passando da Hibernaculum, fino a The Beed Made Honey In The Lion’s Skull l’ascolto di un album degli Earth può essere definito un viaggio, ma non un viaggio senza ritorno come potrebbe essere quello che scaturiva dal periodo drone: qui le atmosfere sono sì rarefatte, ma l’immaginario che ne scaturisce riporta alla mente immagini di spazi apertissimi, desolati, sicuramente influenzati dalla regione di provenienza del mastermind, il Texas. E fino qui si può dire che di nuovo c’è poco. E forse è proprio qui il problema.
Fortunatamente ho potuto gustarmeli di recente dal vivo, riuscendo a sentire due delle migliori canzoni della band quali “Coda Maestoso In F (Flat) Minor” e “Ouroboros Is Broken” (che non verrà più riproposta on stage), e proprio in quell’occasione, nonostante sia stato un ottimo concerto, ho iniziato a nutrire qualche dubbio sugli Earth. Ovviamente non parlo di tecnica personale, di suoni o di produzione, ma della capacità che un nuovo disco degli Earth possa focalizzare la mia attenzione a lungo. Pur avendo inserito qualche piccolo elemento di novità (per esempio il violoncello) la formula è la stessa degli ultimi tre album: i ritmi si susseguono quasi per inerzia, i riff del buon Carlson sono molto simili e la sensazione è che l’album sarebbe potuto uscire anche come monotraccia, senza presentare cinque canzoni divise l’una dall’altra. Ciò non vuol dire che debba esserci un’evoluzione palese per ogni disco, lungi da me, ma le ultime uscite risultano davvero molto simili, a questo punto mi verrebbe da ascoltare direttamente Hex o Hibernaculum. Fortunatamente, nonostante questo lato negativo, almeno un paio di pezzi sono assolutamente da menzionare: “Descent To The Zenith” ancora più dilatata del solito e quasi psych a livello di atmosfere e la titletrack in cui la presenza del violoncello è molto più sentita, sono pezzi che difficilmente qualcun altro potrebbe scrivere.
7.0