(Autoproduzione, 2012)
1. Apoptosis
2. Apophenia
3. Φ – Phi
4. Vertex
5. Trismegistus
6. Samaroid
7. Samaroid / Dioramas
8. Dioramas
Non c’è meritocrazia nel nostro Bel Paese. Non è una scoperta che facciamo oggi, ma è una terribile verità che ci sconvolge tutte le volte che ci troviamo a parlare di dischi che, al di là di ogni facile patriottismo, non possiamo non esaltare e tuttavia dobbiamo catalogare alla voce “autoproduzione”. Rimbomba ancora nelle nostre orecchie il frastuono provocato dall’ultimo piccolo capolavoro dei The End of Six Thousand Years, e ci ritroviamo di nuovo a parlare di una band che se fosse uscita dal Nord Europa, dall’Inghilterra o dagli U.S.A. sarebbe una new sensation del (post/progressive) metal moderno: i bresciani Sunpocrisy.
Samaroid Dioramas, esordio sulla lunga distanza dei Sunpocrisy, è un disco fresco, dal grande impatto, moderno e per niente ruffiano, per quanto peschi a piene mani da alcune delle sonorità più in voga del momento, rielaborandole però con ingredienti mai banali e ribaltando talvolta i canoni di un genere che, se interpretato al meglio, dovrebbe far nascere musica sempre diversa e non dei gruppi-fotocopia. La più grande dote di questi sei ragazzi è senza dubbio la grande personalità, che ha permesso loro di comporre un lotto di pezzi ispiratissimi, un album di musica sincera, originale e in grado di unire in un corpus unico la lezione di vari maestri del metal più o meno moderno.
Nei Sunpocrisy riusciamo a sentire ad esempio la ragionata furia dei Meshuggah come il raffinato gusto dei contrasti melodia / aggressività cari a gruppi come i Cult of Luna, ma anche l’ispirazione contenuta nelle aperture dense di pathos di una band atipica come i The Ocean; noi inoltre, che della Scandinavia amiamo anche il lato più malinconico, non fatichiamo anche a sentire qua e là l’ispirazione dei Katatonia. Già solo questi contrasti dovrebbero stuzzicare la vostra curiosità, ma in realtà Samaroid Dioramas contiene anche più di tutto questo, in virtù della grande personalità menzionata poco sopra. La doppietta “Apophenia” / “Φ – Phi” posizionata in apertura subito dopo l’intro “Apoptosis” varrebbe da sola l’acquisto del disco: sono i due brani più lunghi dell’intero album (dieci minuti ciascuno), ma allo stesso tempo sono incredibilmente i più immediati, colmi come sono di saliscendi emotivi dal grande impatto e momenti assolutamente memorabili (culminanti in un climax finale di “urla nel silenzio” da brividi). Basta l’apertura di “Apophenia” per essere catturati dalla musica travolgente e allo stesso tempo celestiale dei Sunpocrisy e una volta rapiti da questa ragnatela emozionale non potrete fare a meno di continuare ad ascoltare.
“Vertex” e “Trismegistus”, uno più aggressivo e l’altro un vero e proprio interludio melodico, sembrano avere più che altro la funzione di “traghettatori” verso la parte finale dell’album, che parte con la più breve e diretta “Samaroid”, un pezzo che sembra strizzare l’occhio a sonorità molto moderne (l’inizio ci ha quasi ricordato, tanto per esagerare, il metalcore più intelligente degli August Burns Red di Messengers, più che le funamboliche cavalcate prog / core dei Between The Buried And Me) ma allo stesso tempo va oltre, mostrando ancora una volta come sia raffinato il gusto melodico dei Sunpocrisy: un elegiaco finale in crescendo spalanca le porte alle altre due suites poste in chiusura, “Samaroid / Dioramas” e “Dioramas”, in cui nuovamente possiamo trovare tutti gli elementi che vanno a formare la personale proposta musicale della band bresciana. Un’alternanza vocale sempre azzeccata (la prova dei due cantanti è davvero magistrale) avvolge un’architettura musicale mai banale, estremamente articolata e soprattutto emozionante: il segreto dei Sunpocrisy, lo ripetiamo ancora una volta, sta in questi elementi, nella capacità di comporre brani che stupiscano e coinvolgano l’ascoltatore, senza perdere un briciolo della profondità e urgenza espressiva che vogliono comunque far trasparire.
I lettori impazienti, che avranno già letto il maledetto numerino in fondo a queste molte righe, potrebbero essere stupiti dalla valutazione così alta che abbiamo espresso, a poco tempo di distanza dall’ultimo “votone” preso dai The End of Six Thousand Years poco tempo fa; speriamo tuttavia di non essere accusati di eccessivo patriottismo. Come abbiamo ampiamente spiegato in questa recensione di elogio, i Sunpocrisy con Samaroid Dioramas hanno composto un disco di caratura internazionale, un nuovo piccolo pilastro dell’underground italiano che dimostra ancora una volta, come se ce ne fosse bisogno, che la scena musicale di casa nostra è più viva che mai. Il problema è che molte volte siamo noi italiani stessi a sottovalutare le potenzialità di gruppi che nel 2012 hanno ancora il coraggio di cercare strade parzialmente inesplorate. Strade che siamo ben contenti di scoprire insieme ai Sunpocrisy: vi invitiamo a fare lo stesso. Buon viaggio.
8.5