Appuntamento con la storia al Fillmore di Cortemaggiore, arrivano gli Sleep! Per l’occasione, il piccolo paese emiliano s’è riempito di una popolazione varia nello stile e nell’età: metallari ventenni (pochi a dire il vero), trentenni / quarantenni nostalgici e qualche vecchio rocker venuto fuori da un’altra epoca, tutti insieme per vedere una band che, senza alcun dubbio, fa parte della storia della musica, pur avendo sempre dribblato agilmente i canoni standard del sistema musicale. Proprio questa indole ostinata e contraria portò gli Sleep allo scioglimento, incapaci com’erano di far capire al mondo il significato della loro monumentale creazione, la mitica “Dopesmoker” (se non conoscete gli Sleep e volete approcciarvi a loro in modo drastico, prendetevi un’ora di tempo). Ai tempi i ragazzi erano poco propensi ad allontanarsi dalle loro terre, solo dopo aver formato OM e High On Fire i membri degli Sleep si son accorti di quant’era bello andare in tour in Europa; perciò, questa mezza reunion (ci sono infatti “solo” Al Cisneros e Matt Pike sul palco, mentre Chris Haakius è stato sostituito da Jason Roeder dei Neurosis) è paradossalmente la prima occasione per vedere in Italia una band incredibile che faceva uscire i dischi vent’anni fa. Noi ovviamente non potevamo mancare, anche perché il tour prevedeva un supporting act di grande interesse come gli A Storm of Light. Ci scusiamo con i Talisman Stone (abbiamo parlato di recente sulle nostre pagine del loro ultimo disco e abbiamo comunque avuto già modo di sperimentarne il valore dal vivo in passato) e i Doomraiser, ma siamo arrivati tardi per assistere alle loro esibizioni, anche per “colpa” dell’inaspettata puntualità, di cui ci complimentiamo con gli organizzatori.
Sleep + A Storm of Light + Morkobot
Fillmore, Cortemaggiore (PC)
17/05/2012
MORKOBOT
Entriamo e i Morkobot stanno già suonando, non sul palco principale ma su uno più piccolo sistemato molto più vicino all’ingresso: ottima idea, perché la gente ancora non è tanta e questa sistemazione alternativa consente di farsi avvolgere dalla cervellotica musica dei “tre messaggeri di Morkobot” in un ambiente comunque “intimo”. Abbiamo avuto modo di vederli in diverse occasioni negli ultimi tempi (l’ultima volta in uno show folle insieme a Zeus! e Quasiviri), e dunque sappiamo già cosa aspettarci da Lin, Lan e Len: due bassi, una batteria, ritmi schizofrenici da far girare la testa e matematica follia, ma anche aperture atmosferiche ideali per viaggi psichedelici. E’ incredibile quanto la musica di questi schizzati sappia fare presa sul cervello, ma pensiamo che in fondo questa relativa “facilità d’ascolto”, almeno in sede live, sia dovuta al grande gusto ritmico dei tre; una volta superata l’iniziale complessità, la musica dei Morkobot si rivela essere puro ritmo, il battito d’un cuore impazzito e affannato che sembra scoppiare ma in realtà continua a pulsare. Il pubblico presente sembra apprezzare lo show, ma la nostra impressione è che il grosso dei presenti sia davanti al palco consapevolmente, e che invece la maggior parte della gente sia rimasta fuori aspettando solo e unicamente gli Sleep. Peccato, perché per molti poteva essere una buona occasione per conoscere una delle realtà più intelligenti e avanguardistiche del panorama nazionale.
A STORM OF LIGHT
“A Storm of Light? Chi? Ah quelli del visual artist dei Neurosis!”. Josh Graham ci perdonerà, ma per anni la sua band è stata definita sempre e solo così, ed effettivamente neanche lui per molto tempo ha fatto granché per togliersi di dosso quest’etichetta, pubblicando due album piuttosto noiosi e troppo debitori al Neurosis-sound. L’anno scorso però Graham e soci hanno tirato fuori il disco della svolta, sganciandosi dalla Neurot Recordings e, almeno in parte, pure dall’ombra della “band-madre”: As The Valley Of Death Become Us, Our Silver Memories Fade, terzo album della band americana, è il disco più personale scritto dall’ex-Red Sparowes, bello soprattutto in virtù della sua alta fruibilità, composto quasi completamente da pezzi sui cinque – sei minuti dotati di riff facilmente memorizzabili e di arrangiamenti molto “rock”, per quanto si parli di post metal in senso abbastanza canonico. Anche gli stessi A Storm Of Light sembrano essere consapevoli della bontà del loro materiale più recente, tutta la setlist è infatti incentrata sull’ultima fatica del quartetto (quintetto in sede live, per l’aggiunta di una a noi sconosciuta bionda alla seconda chitarra) e non possiamo che essere felici della scelta. Fin dalla doppietta iniziale “Silver” / “Missing” ci accorgiamo che la voce di Graham si sente poco e appare più che altro un eco lontano sommerso dagli altri strumenti; probabilmente risulteremo maligni, ma il sospetto che sia una precisa volontà di Josh per non far notare l’obbiettiva modestia della sua voce a chi magari non avesse sentito i vecchi dischi ci resta per tutta la durata del concerto. Ad ogni modo, non restiamo delusi nel complesso della performance degli A Storm Of Light e dal muro di suono da loro innalzato; chi probabilmente non ha familiarità con certe sonorità (e l’avventore medio della serata ricade in questa categoria) non avrà apprezzato, e posizionare al terzo posto in scaletta l’affascinante ma troppo lunga “Wasteland” non ha certo aiutato i ragazzi ad avere il “pienone” sotto il palco, ma in realtà la qualità del loro show è senz’altro migliorata brano dopo brano. L’apice è stata sicuramente “Collapse”, riproposta con particolare trasporto dai newyorchesi e in particolare dal bassista Domenic Seita, l’unico a muoversi un po’ dalla propria mattonella per tutta la durata del concerto. Dopo tre quarti d’ora con pochissime pause e ancor meno saluti o ringraziamenti verbali, Graham e soci chiudono con “Black Wolves” una performance non certo sensazionale ma sicuramente migliore di quanto fatto in passato dagli A Storm Of Light in suolo italico. Avendo salutato con gioia i miglioramenti in studio dimostrati con l’ultimo full-length, speriamo che col prossimo album e con un nuovo tour migliori anche l’impatto live della band, che per ora si limita ad eseguire (bene, per carità) il compitino.
SLEEP
Pura astrazione. Inizialmente è questo il concerto degli Sleep, e la maggior parte dei presenti in fondo non si aspetta altro che un lungo viaggio sonico e mentale, anche se per dovere di cronaca dobbiamo notare che abbiamo visto alzarsi dalla folla molte meno nuvole di fumo di quanto ci aspettassimo. Un boato saluta l’ingresso dei cugini grassi di Cisneros e Pike, e ancor più forte è l’entusiasmo del pubblico quando Al e Matt danno il via alla grande cerimonia con “Dopesmoker”, dimostrando in un attimo che avranno anche perso il peso forma ma non certo il carisma: il Fillmore, finalmente pieno, assiste totalmente adorante lasciandosi senza esitazione risucchiare dal vortice degli Sleep. Dietro alla band partono subito proiezioni astrali decisamente più efficaci e coinvolgenti di quelle di chi li ha preceduti, ma noi riusciamo a prestare attenzione solo ai due californiani, con buona pace del grande Jason Roeder che comunque sostituisce egregiamente Haakius. Abbiamo sentito vari pareri da parte di chi era in mezzo al grosso della gente sotto al palco e qualcuno s’è lamentato dei volumi troppo alti, ma noi non ci siamo accorti di nulla, dal fondo della sala ci siamo goduti davvero al meglio il concerto, grazie anche all’ottima impostazione del Fillmore che permette a chi sta più vicino all’ingresso di vedersi quasi “dall’alto” la band apprezzando appieno l’ottima acustica di cui è dotato lo storico locale piacentino.
Veniamo alla musica vera e propria: tutto lo show s’incentra sulla monumentale “Dopesmoker”, spezzata in due tronconi posti all’inizio e alla fine della setlist. La scelta non sembra legata alla possibile difficoltà nel riprodurre senza pause il colossale brano, dato che gli Sleep dimostrano davvero pochi segni di stanchezza (si tratta comunque di tre musicisti rodati e abituati a tenere live show anche piuttosto lunghi), quanto piuttosto a utilizzare il capolavoro assoluto dei ragazzi di San Francisco come filo conduttore del concerto: “Dopesmoker” è un brano epico e unico al mondo, è l’alfa e l’omega allo stesso tempo, e perciò uno show degli Sleep effettivamente non può non cominciare e finire così. Ma Cisneros, Pike e Haakius composero altri capolavori che sarebbe stato un delitto non riproporre dal vivo, e perciò al centro della scaletta c’è spazio per una “Holy Mountain” e una “Aquarian” da brividi e scapocciamento allo stesso tempo, con, a fare da perno centrale del rito, l’immancabile “Dragonaut” sul cui magnifico riff iniziale parte l’ennesimo boato. Un po’ di perplessità è arrivata per alcuni solo nel momento in cui Cisneros ha annunciato un pezzo “non registrato”, ma noi capiamo subito che si tratta di “Sonic Titan”, bonus track registrata dal vivo che fa parte dell’edizione ritenuta da molti “canonica” di Dopesmoker.
Abbiamo parlato di Al Cisneros nel live report della recente data bolognese degli OM, e tutto quanto abbiamo scritto in quell’occasione potremmo ricopiarlo qui in termini ancora più esaltati: gli interventi tra un brano e l’altro sono come al solito striminziti, ma Al è capace di comunicare in maniera inimmaginabile per qualsiasi altro essere umano semplicemente col suo basso, col suo canto evocativo e con le sue assurde movenze che sono un tutt’uno con la musica da cui sembra posseduto, al pari del compare Matt Pike, che sul palco sembra quasi stia in piedi solo perché animato dalle note emesse dalla sua stessa chitarra. E così l’interazione tra band e pubblico, probabilmente inesistente agli occhi di qualcuno esterno al rito speciale che si sta celebrando in questa data storica, si rivela esserci eccome, attraverso l’empatia pura che nasce dalla musica ancestrale e allo stesso tempo avanguardistica di questi ragazzi che più o meno quindici anni fa, presi da una costante indolenza e perennemente strafatti, hanno scritto un pezzo di storia.
Così com’è iniziato, lo storico show degli Sleep finisce sulle note di “Dopesmoker”, dopo quasi due ore di viaggio incredibile. Se qualcuno aveva dei dubbi sulla qualità di questa reunion, sicuramente se li sarà tolti: gli Sleep (o meglio, il trio Cisneros / Pike / Roeder) si sono dimostrati assolutamente impeccabili, merito sicuramente del fatto che in tutti gli anni passati dallo scioglimento della band non se ne sono certo stati con le mani in mano, scrivendo anzi altri piccoli pezzi di storia della musica. E infatti se ci dicessero che l’anno prossimo torneranno, una parte di noi sarebbe già pronta a mettere mano al portafogli per vedere nuovamente una “Dragonaut” o l’intera “Dopesmoker” su un palco. Ma alla fine, in questi casi, è bello anche lasciarsi prendere dal romanticismo e, con buona pace di chi questo evento incredibile se l’è perso, sperare piuttosto che Cisneros e Pike abbiano il buon gusto di mettere fine così a questa esperienza, col tour europeo che ai tempi gli era mancato. Sarà bello, tra diversi anni, poter dire “io c’ero quella volta che gli Sleep vennero in Italia”, riportando alla mente le incredibili sensazioni provate.
Grazie Al, grazie Matt, e grazie Chris, anche se questa volta non c’eri.