(Martire Records/Unquiet Records/Drown Whitin Records, 2015)
Sono passati quattro anni dal discreto debutto discografico degli Abaton e dalla interessante intervista apparsa nella mitica e oramai morente rivista Grind Zone. Ora i forlivesi si ripresentano alla nostra attenzione con questo full-length intitolato We Are Certainly Not Made Of Flesh ed una formazione a quattro (non più a cinque) che non fa assolutamente rimpiangere l’elemento perduto.
Si parte subito con i primi cinque pezzi uno dietro l’altro, che come sassate nella schiena fanno rapidamente capire di che tipo di pasta siano fatti questi ragazzi. Il suono dell’album è ipnotico, ammaliante e nello stesso tempo grosso e cattivo, una fusione perfetta di diversi elementi che permette agli Abaton di trasportare il loro black/sludge in un sound avanguardistico che ipnotizza e colpisce l’ascoltatore. Siamo avvolti col passare dei minuti da un etere cupo, meditativo e aggressivo, fatto di chitarre risonanti, stordenti e pesanti, di linee di basso ben presenti e mai banali che si fondono con un drumming di altissimo spessore, articolato e sempre indovinato anche nelle parti più serrate, in piena estasi old school black metal. Riusciamo a percepire una sorta di bipolarismo nelle vocals (“Nadi” e “[IV]” vedono anche la partecipazione di Sean Worrel dei Nero Di Marte), che vanno dall’essere feroci e incisive nelle parti veloci ma più lente e laceranti nei momenti più compassati. A volte l’avvolgente contemplazione psichedelica creata dagli Abaton può ricordare i Minsk (si vedano in modo particolare “Ananta” e la conclusiva e penetrante “V”) mentre in altri passaggi più complicati e incisivi possono venire in mente gli Unearthly Trance senza i loro giri punk/crust. I romagnoli abbandonano qui quasi totalmente le ritmiche del comatoso doom degli esordi, per dare spazio a ritmiche sostenute e tempistiche varie e imprevedibili.
Questo album permette alla band di esprimere la propria attitudine sperimentale e innovatrice, dimostrando che i ragazzi credono, ed hanno sempre creduto, a quello che fanno, riuscendo persino a strutturare ottimamente tutto il proprio messaggio in un concept (ideato da Marco Burbassi e Sara Agatensi ed incentrato sul percorso che compie l’essere umano, viaggiando dal piano materiale sino al piano spirituale). Tale racconto in musica rende l’album una sorta di viaggio meditativo lungo quarantacinque minuti, con alcuni interludi sapientemente piazzati che fungono da limbo nel quale la mente, libera, non pensa, ma vede. Gli Abaton, ora più che mai, possono raccogliere tutto ciò che hanno seminato, dagli esordi nel 2009 nei garage fino alle recenti esibizioni che li hanno portati a condividere i palchi con band del calibro di Forgotten Tomb, Cult Of Luna e AmenRa. Il quartetto ha oggi tutte le carte in regola per ampliare ancor di più i propri orizzonti: sarebbe bello se riuscissero ad arrivare anche oltreoceano a diffondere il loro personale misticismo sotto forma di sound cosmico.
Resta da capire, per approfondire l’argomento, da dove nasca tutto ciò: sarà la presenza dell’imponente zuccherificio abbandonato, che con il suo stato di inquietante abbandono e degrado avvolge di una cupa nube tutta Forlì, oppure sarà la natura della città, statica in sé, incapace di regalare una soddisfazione a nessuno; fatto sta che ultimamente sulla provincia romagnola si addensano sempre più numerose nubi nere. Gente come gli Abaton o i “confinanti” Sedna ne sono sicuramente responsabili.
8.0