(Pelagic Records, 2012)
1. Start With A Heartbeat
2. Man The Serpent
3. The Great Dismemberment
4. New King, Dark Prophet
5. This Is Not A Deadman, Yet
6. Carcasses
7. The Chymical Fiancè
8. Dawn
The Serpent, The Prophet & The Whore degli svizzeri Abraham è un disco post-core ben fatto, ben suonato, e tutto sommato godibile. Ma certo non originale. La band percorre sentieri già ampiamente battuti e in un mercato saturo di prodotti di questo tipo farà fatica ad emergere, per quanto sia capace di comporre qualche pezzo di buona fattura e dimostri una grandissima padronanza del genere. E’ però fin troppo evidente che gli Abraham difettano di personalità.
The Serpent, The Prophet & The Whore esce a circa un anno di distanza dal precedente An Eye On The Universe, ma non ci stupiremmo se ci dicessero che la band ha scritto i brani per uno e per l’altro disco nella stessa sessione di registrazioni. Viene da chiedersi se non fosse stato meglio per gli Abraham passare più tempo a sperimentare qualcosa di diverso da una formula così abusata, come viene allo stesso modo da chiedersi perché Robin Staps, owner della Pelagic Records per cui esce questo disco, si ostini a promuovere band così sfacciatamente simili ai suoi The Ocean… e neanche quelli attuali, dotati di un’attitudine un po’ più “avanguardistica”, ma quelli dei primi album (per intenderci, prima di Precambrian, miglior lavoro del “collettivo”), che quando uscirono avevano certamente molto da dire ma che adesso appaiono un tantino superati.
Il gruppo che compose Aeolian sembra infatti una delle principali influenze degli Abraham, così come, forse condizionati (ma anche no) dalla stessa provenienza, ascoltando questo disco ci vengono spesso in mente i maestri svizzeri Knut nella loro versione più diretta e “sporca” (non quelli del pur bello Terraformer, dunque). Questo dal punto di vista strettamente compositivo, perché provando ad interpretare invece le “atmosfere” che i nostri cercano di creare abbiamo più volte la sensazione che gli Abraham cerchino di replicare, attenendosi però un po’ troppo alla “traccia” e risultando dunque ridondanti, gli abissi dei Buried Inside in Spoils Of Failure; un gruppo come i nostrani Rise Above Dead, puntando su strutture più semplici volendo, ma comunque più personali, si sono avvicinati molto di più allo stesso obbiettivo.
Considerando infine la parte vocale, c’è da dire che si tratta di una prova in fondo buona, che se a tratti scimmiotta decisamente troppo quel growl monocorde che ci stava tanto bene nei Cult of Luna ma dopo un po’ basta, in certi momenti appare più ispirata nella ricerca di soluzioni alternative. E’ però tutto il complesso che non regge: gli Abraham potrebbero piacere a chi ancora non conosce certe cose (come i gruppi citati in questa recensione), ma ad un ascoltatore un minimo più abituato a queste sonorità risulteranno onesti mestieranti che, pur suonando bene, non riescono a trasmettere granché. Siamo però bendisposti a dargli tempo, e ad ascoltare un eventuale prossimo album: le basi ci sono, ora serve ragionare un po’ di più e allo stesso tempo usare un pizzico di fantasia.
5.5