(Trendkill Recordings/7Degress Records/Shove Records, 2014)
1. Walls that Breathe
2. To Vomit Crows
3. Ash
Oakland è da molti anni una fucina di progetti e gruppi di grande impatto e successo nei rispettivi generi, come se vivere nell’ombra di San Francisco istighi le persone a una geniale pazzia musicale, fatta di primitive batterie, riff ossessivi e voci dilanianti. Tanti sono i gruppi che negli ultimi dieci anni sono nati nel sottosuolo di questa grigia città californiana, quali Asunder, Stormcrow, Embers, Noothgrush per citarne alcuni. Da questo ambiente si emergono nel 2010 gli Abstracter, con un progetto che mette sullo stesso piano post / sludge, crust e atmosfere black metal.
Dopo due anni entrano in studio per registrare il loro primo album, tre frammenti immersi in un malessere esistenziale nero e grave, dal quale si riemerge solo a tratti per prendere aria nella ricerca di un cielo più limpido. Come alcuni più noti concittadini, i Nostri se ne fregano di dover rinchiudersi in un genere prestabilito, passando da aggressivi sprazzi di stenchcore a momenti più riflessivi tipicamente doom. In questo anche la voce segue il cambiamento, inbruttendosi in un primo momento per diventare un limpido urlo nella nebbia poi. La prima influenza che possiamo riscontrare in “Walls that Breathe” è certamente quella dei Neurosis, nell’intro lieve e dai toni sognanti che si trasforma presto in cieca aggressività crust, facendo tornare alla mente nomi storici come i Dystopia. Ciò che è più sorprendente in questi ragazzi è la perfetta mescolanza delle loro varie influenze, che li porta ad ottenere qualcosa di cupo e astratto, e ad arricchire ogni parte delle loro tracce con perfetti riff di chitarra coinvolgenti e avvincenti. “To Vomit Crow” attacca subito al midollo della spina dorsale con uno sludgecore grezzo e minimale, fatto di downtempo mirati e spietati che si sviluppano in una traccia ancor più lunga della precedente, ma questo non è certo un fattore di noia. Come terza e ultima traccia troviamo “Ash”, la più lunga tra tutte, divisa in varie parti di diverso stampo, una conclusione magnifica nella forma di un brano che forse più di tutti ci rivela le reali potenzialità degli Abstracter.
Tomb of Feathers è marcio e nero al punto giusto, come se qualcuno avesse messo un album doom a macerare per vent’anni e poi l’avesse rimesso nel giradischi. Un suono gutturale e pesante ci perseguita per tutto l’ascolto, concedendoci solo sporadiche boccate d’aria, per poi farci affondare di nuovo nelle più profonde e cupe caverne della mente. Un prodotto degno della città che l’ ha partorito.
7.5