Alla metà dei 2000s gli Atreyu si affermarono sul panorama alternativo (si fa per dire…) con due singoli d’effetto come “Bleeding Mascara” e “Right Side of the Bed”, entrambe contenuti nell’album “The Curse”. I riff catchy li fecero conoscere ad una prima cerchia di interessati. Il sovra-utilizzo di Myspace come mezzo mediatico e la contemporanea esplosione pandemica del virus del metal-core (che si rivelerà a tratti benefico e in grado di sfornare ottime nuove leve del metal americano e non) fecero il resto. A “The Curse” seguirono a brevissima distanza altri due album, in grado di vendere bene e far ricavare alla band un ruolo di spessore sulle ideali mensole degli ascoltatori-tipo. Come ogni mensola, tuttavia, essa va di tanto in tanto ripulita, riordinata, aggiornata. E diciamo che gli Atreyu hanno ben presto visto la polvere depositarsi sul proprio prodotto, rendendolo stantio e simile a tanti altri.
Questo “Congregation of the Damned”, dunque, tratta di tematiche personali, un po’ sulla scia dell’acclamato predecessore. Per stessa ammissione della band, l’album è composto da tracce più pesanti, grintose e rabbiose, e costituisce sicuramente il migliore capitolo della discografia del gruppo di Orange County (ma guarda un po’!). La realtà, tuttavia, è piuttosto differente. Tredici tracce per una durata totale di poco inferiore ai cinquanta minuti (difficilmente si superano i 4 minuti), durante i quali il gruppo presenta, fondamentalmente, una minima variazione sul tema rispetto ai lavori precedenti. Lo stile musicale non si discosta poi molto dagli Atreyu che furono, componendo canzoni che vedono alternate molto volentieri le parti melodiche al tipico cantato in screaming acido e aspro, marchio di fabbrica della band. Sembra, a tratti, di voler forzatamente cercare una sorta di operazione-ricordo, in memoria dei bei tempi ormai andati, quando ancora in pochi avevano capito quanto potesse fruttare unire i dolci cuori (tardo)adolescenziali e la rabbia repressa da rrrebel kid de’ noantri. Le sorprese (risate di sottofondo) non mancano di certo: chi mai si sarebbe potuto aspettare l’intrusione in dose massiccia di tastiere, pronte a mitigare con favolose melodie moderniste i tratti più sconnessi delle varie tracce? E come si sarebbe potuto evitare un brano conclusivo che possa rendere giustizia ai cuori spezzati, dipanandosi in gorgheggi semi-acustici salvo poi terminare in bellezza, con un assolo che neanche “November Rain”?
Parlando di punti di forza, invece, la band non ha certamente perso l’abitudine a costruire le proprie canzoni secondo una logica che ancora oggi funziona: tanti cori ben assestati e molti stoppati, che certo contribuiscono a non far tramontare il regno dei metal-corers. Nonché qualche sorpresa effettiva, come l’utilizzo di arrangiamenti classicheggianti e violini in “Bleeding is Luxury”. Assieme a ciò, un’estetica costruita e ritagliata al centimetro ed un appeal che più che rockstars distante anni luce dagli scenari europei li fa sembrare un gruppo sincero, appassionato e sempre pronto a supportarti nei momenti di difficoltà, garantiscono al gruppo la sicurezza matematica del fatto che, anche stavolta, riusciranno tranquillamente a portarsi a casa la pagnotta.
Ascoltare gli Atreyu oggi significa calarsi in un miscuglio di influenze metal e di un easy rock ammiccante e volutamente diretto ad un pubblico di teen-agers. Il che è, fondamentalmente, ciò che gli Atreyu hanno da sempre proposto, e di questa coerenza va fatta lode. Con una sola obiezione, tuttavia: gli anni passano per tutti, e suonare a distanza di quasi dieci anni le stesse melodie (ma con i componenti ad una età media di quasi trent’anni) fa un po’, ingenuamente, sorridere.
Voto: 5