(Rise Records, 2012)
01. The March
02. Faith In Fire
03. Goodbye To Death
04. Final Hours
05. Starving Vultures
06. Everything You Love Is Gone
07. Walking Dead
08. Devil And Self Doubt
09. Step Back In Line
10. Trail Of Seclusion
11. Deaf Ears
12. One By One
13. Entrenched
14. Back To Life
Un nuovo album dei Bleeding Through suscita sempre un notevole interesse da parte della critica e dei fan, dopotutto stiamo parlando di una band, nata a fine anni Novanta, che si è sempre posta ai vertici della scena metalcore con degli album come Portrait of the Goddess e The Truth e delle live performance incendiarie, dove la band da il meglio di se, grazie anche ad un frontman d’eccezione come Brandan Schieppati.
Nel 2008 la “svolta”: la band pubblica Declaration, una perla di metalcore dove traspaiono maggiormente gli inserti thrash della coppia d’asce e la pesante iniezione di elementi black metal nelle composizioni, dando una maggior opportunità d’espressione alla tastierista Marta Peterson. A due anni dal disco sopracitato, e la conclusione dei conflitti con la Trustkill (la vecchia etichetta della band) viene pubblicato il sesto ed omonimo capitolo discografico, con il quale il six-piece di Orange County riprende il sentiero tracciato con Declaration. Un album discreto che mancava però della compattezza dei dischi precedenti.
31 gennaio 2012: i Bleeding Through pubblicano, in seguito ad un nuovo contrato con Rise Records, la settima fatica in studio The Great Fire. Ascoltando il nuovo album si nota come dalla produzione bombastica del nuovo album (a cura di Mike Terry degli Anaal Nathrak, con il quale Brandan Schieppati condivide il side-project Suffer Well) emerga una componente symphonic-black ancora più forte (chi ha detto Dimmu Borgir?), in una commistione di elementi che sembra fungere da anello di congiunzione tra le release più recenti (le già menzionate Declaration del 2008 e Bleeding Through del 2010) ed il secondo album della band Portrait of the Goddess.
Le tracce presentate sono ben quattordici, tutte dal minutaggio ridotto (solo una traccia supera i quattro minuti di durata, mentre ben sette brani fermano il cronometro poco prima o poco dopo i due minuti), nelle quali la band si cimenta in quello che sa fare meglio di chiunque altro nella scena metalcore: attaccare a testa bassa, con un vocalist che veste i panni del mattatore assoluto ed il batterista Derek Youngsma che come al solito è oggetto di studio dagli esperti di eventi sismici.
Tra cavalcate thrash/metalcore (“Faith in Fire”), riff black (“Walking Dead”, “Step Back in Line”), break down spaccaossa e sferzate hardcore (“Final Hours”) però non si esce pienamente convinti da dall’ascolto di questa release. È come se mancasse quel senso di compattezza propri di Declaration e degli album ad esso precedenti, come se fosse stato composto con la fretta di pubblicare nuovo materiale, e sembra che le varie influenze del combo californiano non siano state amalgamante a regola d’arte come in passato, proprio come nel disco omonimo di due anni fa. Il lavoro è ambizioso e certamente non manca di qualità, ma in mezzo al massacro generale creato dai Bleeding Through qualcosa non riesce a mantenere il mordente a cui eravamo abituati, penalizzando quella che poteva essere una carneficina totale. Discutibile la scelta dei suoni della tastiera, che rimandano troppo la mente alla scena symphonic-black e che talvolta stonano col resto del comparto sonoro; un peccato dato che la tastierista Marta sta avendo un ruolo sempre più in evidenza da qualche album a questa parte. Dei suoni più in linea con la proposta musicale della band (stiamo pur sempre parlando di un album che non è 100% black) avrebbero giovato. Curioso notare che i pochi ritornelli melodici presenti in The Great Fire assumano sempre più la funzione di cori atmosferici, lasciando da parte il compito di donare impatto immediato alle composizioni come avveniva nei dischi precedenti (vedi i ritornelli di brani come “Death Anxiety”, “Kill to Believe” e “Salvation Never Found”).
Alla resa dei conti i Bleeding Through meritano ancora una volta un giudizio positivo, complice la loro maestria nell’aggredire l’ascoltatore. Tra brani semplici e diretti, ed altri più strutturati ed impreziositi da assoli di chitarra non è stata ancora trovata la commistione perfetta, seppur questo disco conservi il trademark della band. Non vogliamo certamente muovere accuse… ma è strano notare che il calo nelle performance e nella qualità delle uscite discografiche dei Bleeding Through sia iniziato subito dopo l’arrivo in formazione dell’ex-chitarrista dei No Use for a Name Dave Nessie. I Bleeding Through di oggi sono una band che sta intraprendendo un percorso difficile per unire black metal e metalcore, e che deve ancora trovare la propria dimensione perfetta, ma siamo sicuri che i risultati che tutti attendiamo non tarderanno ad arrivare.
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