(Byelobog Productions, 2013)
1. Sôl austan;
2. Rûnar munt þû finna;
3. Sôlarrâs;
4. Haugaeldr;
5. Feðrahellir;
6. Sôlarguði;
7. Ganga at sôlu;
8. Hîð;
9. Heljarmyrkr;
10. Mâni vestan;
11. Sôlbjörg
Non è passato molto tempo da quando ci siamo occupati di quel disco, Umskiptar, che è coinciso con uno dei tonfi più pesanti della carriera di Burzum: in quell’occasione abbiamo avuto modo di scoprire e seguire il filo conduttore che sino a quel momento aveva contraddistinto tutte le uscite “suonate” di Vikernes, filo che col passare del tempo ha acquisito connotati sempre più folk a dispetto della componente più black metal della sua musica. Allo stesso modo, Belus testimoniava ancora una volta come il norvegese fosse forse l’unico dello zoccolo storico scandinavo a saper proporre musica di alta qualità anche a distanza di vent’anni dai capolavori che segnarono un’epoca, si pensi al contrario all’ingloriosa fine dei Darkthrone, agli impietosi businessmen Satyricon, agli scioltisi Emperor, ai progressismi degli Enslaved o alla noiosa e sterile coerenza dei Marduk.
Dopo la cocente delusione a causa del già citato Umskiptar si potrà pensare che di peggio non si può fare, no? E invece c’era solo una cosa che potesse far paura più di un disco brutto, inconcludente o terribilmente autoreferenziale: un nuovo disco ambient di Burzum. Eh sì, perché non contento di quella mattonata atroce, immaginate dove, che risponde al nome di Dauði Baldrs e del suo comunque più riuscito seguito Hliðskjálf (che almeno un paio di brani ascoltabili li contiene), Vikernes decide di riprovarci con Sôl austan, Mâni vestan che vorrebbe essere sia la colonna sonora al film da lui diretto sia un concept album a tematiche pagane in cui trovare echi anche dei Tangerine Dream. Ovviamente di quest’ultimi non c’è traccia alcuna, ma i brani qui presenti si discostano leggermente da quanto già fatto in passato nel loro essere meno tribali e rituali prediligendo soluzioni più folk come in “Rûnar munt þû finna”, “Feðrahellir” o “Sôlarguði, anche se questo non cambia la sostanza del disco. L’apertura affidata a “Sôl austan” lasciava sperare qualcosina di gradevole, ma il continuo ripetersi degli stessi effetti e soluzioni in quasi tutti i brani (confrontate quella appena citata con “Haugaeldr”, “Hîð” o “Heljarmyrkr”, oppure segnatevi da qualche parte l’incessante ritornare delle percussioni e delle sonorità di “Rûnar munt þû finna”) non può portare che alla noia; destino quasi scontato quando si passa agli ultimi 4/5 brani dell’album, che hanno l’incredibile sonnolento potere dei peggiori momenti di Dauði Baldrs. Sicuramente qui siamo più verso i lidi di Hliðskjálf che del suo predecessore quindi, oltre ad un paio di passaggi non proprio da cestinare, possiamo sostenere che chi ha apprezzato quel disco potrà trovare qualcosa di buono anche in Sôl austan, Mâni vestan.
Per tutti gli altri Sôl austan, Mâni vestan si concluderà in un lungo e doloroso sbadiglio: lungo quanto un disco che si potrebbe riassumere in cinque minuti di musica e doloroso nello scoprire che nell’ora scarsa della sua durata avremmo potuto (ri)ascoltare uscite di ben altro spessore.
4.5