(Byelobog Productions, 2012)
1. Blóðstokkinn;
2. Jóln;
3. Alfadanz;
4. Hit helga Tré;
5. Æra;
6. Heiðr;
7. Valgaldr;
8. Galgviðr;
9. Surtr Sunnan;
10. Gullaldr;
11. Níðhöggr
Quello di Varg Vikernes è un nome legato a doppio filo alla storia del black metal: oltre ad essere uno dei personaggi chiave della scena norvegese di vent’anni fa è anche l’autore di almeno tre dei capolavori assoluti del genere che hanno, anche involontariamente, influenzato decine e decine di progetti (e più spesso cloni) nati successivamente anche al di fuori di questo genere. Se si vuole aggiungere anche l’uscita nota come Burzum/Aske, in cui lo stile espresso successivamente non era ancora delineato pienamente, si arriva a quattro capolavori immortali. Per questo grande rilievo ebbe la notizia di un paio di anni fa secondo cui imminente sarebbe stata l’uscita di nuovo materiale a nome Burzum, dopo la bellezza di due lustri di inattività totale.
Belus era quel nuovo materiale e ci mostrava un Count Grishnackh in buonissima forma, che riprendeva la sua propria lezione a dovere e imbastiva un ottimo album, nonostante le speranze fossero effettivamente poche. Fallen uscì l’anno successivo cambiando leggermente le carte in tavola verso una proposta meno strettamente black metal, con svariate influenze folk e talvolta un cantato in pulito abbastanza spiazzante; purtroppo questo cambiamento coincise anche con un effettivo calo della qualità delle canzoni, che rese Fallen un album a malapena passabile e sicuramente l’episodio peggiore dalla nascita del progetto sino ad ora. Ora, poco più di un anno dopo, il posto di questo picco negativo viene preso dal nuovissimo Umskiptar che, malauguratamente, ci mostra un Burzum in pessima forma e probabilmente un po’ a corto di idee. Punto di partenza rimane sicuramente Fallen: le sonorità, l’uso del pulito e le influenze folk sono esattamente le stesse. Peccato, però, che in questo caso sia davvero difficile arrivare alla fine senza sbadigliare clamorosamente. La seconda parte del disco in particolare offre gli episodi e gli esperimenti peggiori: si inizia con “Heiðr” passando per “Surtr Sunnan” fino a quel monumento alla sonnolenza che è “Gullaldr”. Esasperando la componente folk, questi tre brani si basano solo sugli intrecci fra chitarra e voce, talvolta quasi recitata, trasmettendo però solo un senso di monotonia tremendo; ascoltandoli più e più volte sembra che siano stati inseriti nell’album giusto per aumentarne la durata, data la pochezza che esprimono. Stranamente, pur appartenendo a questo stile, “Galgviðr” sembra molto più interessante, nonché decisamente più sentita grazie ad un cantato che finalmente riesce a trasmettere qualcosa in più che qualche parola al vento. Il resto dell’album scivola via senza troppe emozioni, si limita a seguire più o meno fedelmente il percorso iniziato da brani come “Jeg Faller” o “Budstikken” ed in questo senso episodi come “Jóln” o “Valgaldr” fanno la loro porca figura, ma è davvero troppo poco.
Lo stile di Burzum rimane comunque riconoscibile senza conformarsi a nient’altro che se stesso e questo è un punto a favore. Davanti ad un album in cui regnano mediocrità e noia diventa però difficile vederne ed apprezzarne i pochi aspetti positivi. Spesso si sente dire che una seconda chance si concede a tutti, anche se pochi veramente lo credono, e questo è il momento in cui bisogna concederne un’altra al caro norvegese, sperando in una prossima uscita degna del suo nome. Con amarezza rimane da riassumere il tutto in un voto, forse eccessivo in un certo senso, ma che trasmette appieno la delusione di chi scrive.
4.5