Da un anno e mezzo circa Romagnano Sesia, una città come tante del Piemonte, in provincia di Novara, è meta pressoché fissa per tutte le death metal bands d’Oltreoceano in tour in Europa: situata in un’area strategica, fra Liguria, Piemonte e Lombardia, può, infatti, raccogliere una bella fetta d’amanti del genere del circondario e non solo – all’evento che m’accingo a descrivere era pure presente una bella rappresentanza dall’Emilia Romagna.
Organizzata una folkloristica macchinata cuneese, affrontando la pioggia e il tempo uggioso di sabato 20 aprile, ho raggiunto il locale che avrebbe accolto una delle tre tappe italiche del tour dei Cryptopsy (accompagnati da Cattle Decapitation e Decrepit Birth), il Rock’n’Roll Arena, luogo che, d’arena, ha solamente il nome: si tratta comunque d’uno dei posti più belli della nostra nazione in cui si possa suonare dal vivo musica così estrema – senza, ovviamente, nulla togliere a chiunque si sbatta, anche e soprattutto a livello underground, a portare ovunque i nostri generi preferiti –, il quale si presenta come il classico pub dall’immagine rock/metal, ma con, a parte, un’ampia zona live, munita d’un signor palco e d’un impianto che garantisce suoni dalla buona resa.
Ma bando alle ciance, ciancio alle bande, squillino le trombe e trombino le squillo: un evento come quello dell’ultimo sabato era, per molti versi, una piccola mecca nostrana del death metal internazionale, capace d’unire sotto lo stesso tetto metallari amanti dell’estremo, trve deathsters e brutallari. La curiosità e l’entusiasmo degli oltre duecento presenti, infatti, era ad alti livelli: lo si notava dall’atmosfera festaiola e dalla tensione positiva palpabile nell’aria, di fronte a così tanti ‘mostri sacri’– per quanto spesso discussi e criticati – in una sola serata…
Humangled
Sebbene la schedule della serata avesse previsto l’inizio del live dei toscani per le 18,20, la band ha iniziato ad esibirsi circa quaranta minuti dopo: nessun problema, comunque, dal momento che la scaletta delle band, evidentemente già rodata per venire incontro a qualsivoglia imprevisto, non ha subito nessun intoppo o imprevisto. Degli Humangled, devo confessarlo, fino al 20 aprile non conoscevo nemmeno l’esistenza: shame on me, riga rossa sul mio curriculum d’amante del death metal italiano; evidentemente non si smette mai d’imparare (e dire che, internet alla mano, i pisani sono attivi da metà degli anni Novanta e vantano anche uscite discografiche diffuse discretamente anche a livello internazionale)… Duole a dirsi, ma, di fronte al loro live, istantaneamente ne ho capito il motivo: a parte il possente growl à la Glen Benton, alternato a scream acidi, del frontman, il quintetto ha decisamente poco da offrire. Death metal vecchia scuola, giusto? I nostri old boys si sono lanciati in una convinta esibizione tutta a base di suoni grossi di chitarra, riff lenti e cadenzati, ma tutt’altro che ‘scapocciabili’, UN solo blastbeat (nell’ultimo pezzo, se non erro) e canzoni quasi indistinguibili l’una dall’altra. Come warm up all’evento ci poteva essere qualcosa di meglio; certo, per loro, la presenza ad un live come questo è stato, giustamente, un biglietto vincente alla lotteria.
Synodik
Dopo un rapido line check, ecco sul palco i genovesi Synodik, band piuttosto giovane che, quando ancora si chiamava Asylum, cercava di riprodurre, in Italia, il classico suono di casa Pestilence. Forti del recente esordio Sequence for a New Matrix, i nostri ce l’hanno messa tutta, trovandosi, per la prima volta dall’uscita del full, a dover fronteggiare il confronto con importantissime realtà internazionali; il loro compito, tutt’altro che semplice, era quello di colmare il vuoto prima dell’arrivo dei big e coinvolgere i presenti. Benché la loro proposta musicale non rientri nelle mie corde – si tratta d’un death metal più groovy che fast, che, sì, contiene vecchi richiami al periodo Asylum, ma anche con echi industrial e vicino a certi arrangiamenti ‘futuristici’ di band come Hate e gli ultimi Decapitated –, il quintetto ligure ha messo su uno show dignitoso, di circa venticinque minuti, di fronte ad un pubblico che ha preferito più guardare ed applaudire che pogare (eh, ‘sti metallari!).
Eyeconoclast
Con l’arrivo del quintetto romano, l’attenzione e la partecipazione dell’Arena hanno iniziato ad alzarsi di livello; presenti nel tour già da qualche giorno, la data di Romagnano Sesia è stata per gli Eyeconoclast l’ultima nel loro ruolo di spalla a Cryptopsy e compagnia. Blastbeats a tutta velocità, momenti di groove accompagnati dal classico tempo dimezzato, colate laviche di doppio-pedale al fulmicotone, riff che pescano da certi Malevolent Creation e, talvolta, dal death-thrash nordeuropeo di fine anni Novanta, headbanging furente e chiome a mulinello, camicie nere e New Rock ai piedi… ma le death metal band della Capitale non tendono un po’ tutte troppo a somigliarsi? Per carità, benché apprezzi Hour of Penance, Hideous Divinity & Co., quanto appena accennato in maniera provocativa è un dato di fatto, ma anche, se vogliamo, una nota di merito: se il metallaro più incallito sa riconoscere il Bay Area Thrash Metal degli 80s al primo ascolto, nel 2013, è figo potere avere coscienza del fatto che esista un distinguibile Death Metal Sound Made in Roma! E’ anche vero che, guarda caso, l’ottimo drummer del combo sia un certo Mauro Mercurio (ceffoni a chi non sa chi sia!), nonché uno dei chitarristi sia quel Saul degli studi di culto, oramai anche a livello mondiale, 16th Cellar.
Forti d’un contratto con l’ottima Prosthetic Records (quale altra band romana è sotto contratto con loro?? Vabbè, basta commentini pseudo-maligni!), gli Eyeconoclast si sono lanciati in una performance gagliarda, energica e precisa, nutrita anche da una certa rabbia, dovuta al furto dei piatti spariti misteriosamente al batterista Mauro la sera prima, a Pistoia, neanche a farlo apposta, nella prima data italiana del tour (il set di cymbals, per l’occasione, è stato rimpiazzato grazie all’aiuto dei Decrepit Birth: tanto di cappello). Qua gli eventuali commenti piccati li lascio al vostro buon senso ed alla vostra fantasia: troppe sarebbero le parentesi da aprire di fronte ad un evento del genere. Basti dire che, oltre all’ovvia e scontata illegalità del gesto, tale furto denota anche un’immensa mancanza di rispetto da parte di chi l’ha fatto, personaggi – o personaggio? – che, probabilmente, neanche sanno cosa significhi portare avanti il discorso d’una band a livello quasi professionale (ma non solo!), fra tagli e sacrifici, né cosa voglia dire dare tutto per un tour. Vergogna!!!
Se non altro, l’audience di Romagnano Sesia ha dimostrato la sua solidarietà, partecipando con calore ed entusiasmo al tiratissimo live degli Eyeconoclast: in bocca al lupo, ragazzi!
Decrepit Birth
Senza nulla togliere alle band che li hanno preceduti, naturalmente, chiunque sia stato presente sabato 20 aprile nel Rock’n’Roll Arena era lì per loro, i tre ‘giganti’ protagonisti del tour europeo. A scuotere gli animi, c’hanno pensato per primi, a sorpresa – vista la loro posizione ‘di culto’, soprattutto nel circuito brutal death, a causa dell’ormai storico … And Time Begins –, proprio i californiani Decrepit Birth, band sulla quale ho, per così dire, un buco discografico quasi decennale. Capaci di dividere fans (ma crearsene anche molti nuovi, lontani dal ramo più purista del brutal) e critica con il loro secondo album Diminishing between Worlds, da allora, fra cambi di formazione vari, il combo di Santa Barbara ha intrapreso un percorso sempre più distante dalle proprie origini, con un death metal sì tecnico e lavorato, ma decisamente melodico, con momenti arpeggiati, super-infarcito di assoli dell’ottimo chitarrista Matt Sotelo e totalmente privo dell’impattante violenza del loro primissimo lavoro, allontanandosi anni luce da quelli che, se non leggete il povero Glauko da soli cinque minuti, avrete capito che sono i miei gusti personali. In formazione ridotta a soli quattro elementi (mancava, infatti, il secondo chitarrista, Chase Frasers), i nostri, però, hanno preferito – siano lodati gli Déi del Death Metal!! – concentrarsi sui primi due album: fin dalle prime note di “Of Genocide” il pubblico ha iniziato a reagire con un entusiasmo incredibile; il tutto è sfociato in una bella esecuzione di “The Infestation”, con il frontman Bill Robinson sopra le righe (malgrado la sua voce fosse leggermente ‘dietro’, il suo entusiasmo e il suo carisma on stage restano inimitabili). La scaletta ha poi pescato fra i pezzi di Diminishing…, certo, più ‘molli’ rispetto al primo album, ma decisamente più tirati, se paragonati alle uscite più recenti. La reazione del pubblico, fra pogo ed applausi, è stata molto buona, tanto che lo stesso Bill Robinson, dall’alto dei suoi dreadlocks e della sua maglietta degna del peggiore dei punkabbestia, in maniera quasi commossa ha ringraziato i presenti, sottolineando che, benché i Decrepit Birth fossero in Italia per la prima volta, s’è sentito accolto e a casa, come in California…
Da segnalare, infine, la cover di “Crystal Mountain” dei Death (l’amore per Schuldiner da parte di Sotelo non è proprio una novità), eseguita ottimamente e posta strategicamente in chiusura, la quale ha sfondato una porta aperta col pubblico – sono l’unico in Italia ad apprezzare sì i Death, ma senza stravedere per loro in maniera esagerata?
Cattle Decapitation
Quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare. Dopo il bel live dei Decrepit Birth, è toccato al quartetto di San Diego calcare le assi del Rock’n’Roll Arena. Se fra i lettori di questo report vi fosse qualche fan della band, letteralmente esplosa con l’ultimo magnifico Monolith of Inhumanity, immagino che avrà come domanda ovvia: “Ma i Cattle Decapitation riescono a fare tutte quelle cose assurde, sia strumentalmente, sia vocalmente, dal vivo?” Risposta: “Sì. E, addirittura, meglio”. Bene: per costoro, il report potrebbe terminare qua, insieme a qualche lacrima amara per essersi persi il live in questione. Per tutti gli altri (spero pochi!) che avessero poca confidenza con i Nostri, c’è ben poco da dire: attivi da metà anni Novanta, da sempre sotto la mitica Metal Blade (quella dei Cannibal Corpse, per intenderci), con l’ultimo disco i Cattle Decapitation sono stati in grado di trasformarsi da dignitosi ma mediocri mestieranti del death-grind, in una band capace di rivoluzionare e riscrivere da zero il genere in questione. Parole grosse, eh? Non resta che procurarsi Monolith of Inhumanity, andare oltre l’orribile copertina, premere “play” e godersi il capolavoro: come, infatti, una decina d’anni fa, proprio i Decrepit Birth cambiavano il modo d’intendere il brutal death metal con … And Time Begins, così, nel cuore del 2012, dopo una carriera ai limiti dell’anonimo, i Cattle Decapitation hanno sconvolto la suddetta scena, tirando fuori qualcosa di unico. Partendo dalla classica base californiana Deeds of Flesh/Disgorge (US), i Nostri hanno messo in mezzo novità assolute, pur pescando dalla tradizione, fra dissonanze, momenti post-core, soluzioni che non stonerebbero negli Agoraphobic Nosebleed, melodie da circo maledetto ‘timburtoniano’, tecnicismi funamobolici ma mai forzati, velocità in cui le centinaia di bpm in ballo si sprecano ed un approccio vocale, da parte del frontman Travis Ryan, capace di renderlo (quasi) una sorta di Mike Patton in salsa death metal!
Proprio sul buon Travis, poi, qualche parola andrebbe spesa: capace sì di riprodurre fedelmente e senza sforzo apparente ogni assurdo vocalizzo del cd, il Nostro è veramente una sorta di one-man-show (tanto da oscurare l’orribile taglio di capelli dell’eccellente chitarrista Josh Elmore), capace d’una performance quasi metateatrale, fra l’animalesco ed il nichilista (i bagni di sudore e di scatarrate, i ragazzi in prima fila li ricorderanno per un bel po’!). Indescrivibile. L’unica soluzione è vederlo dal vivo, così come l’intera band, precisa, ineccepibile e carica di quella grinta che il formato digitale non può far passare. Tra l’altro, per la gioia di tutti i presenti (è proprio coi Cattle Decapitation che il pogo s’è fatto indiavolato), la scaletta della band è stata incentrata in tutto e per tutto proprio sull’ultimo formidabile Monolith of Inhumanity. Buon rosicamento a tutti i non presenti.
Cryptopsy
Ed ecco finalmente i canadesi brutali più amati, odiati e discussi del mondo! Capaci di rinnovarsi (?) leccando disperatamente il sedere – ma che motivo c’era? Siete i Cryptopsy! – alla scena (sic) deathcore con un album come The Unspoken King, richiamando ai ranghi il chitarrista fondatore Jon Levasseur, lo scorso anno, hanno provato a farsi perdonare tirando fuori Cryptopsy, un album che, finalmente, di nuovo contiene la follia anarchica del death metal estremo e fuori dagli schemi, tipico del combo in questione. Certo, non toccherà gli apici dei primi tre-quattro dischi (permettetemi qualche nostalgia, da buon over 30…), ma si tratta d’un disco che, pur con formazione rinnovata e rinforzata da giovincelli volenterosi, difficilmente farà storia. Lo confesso: quand’era uscito, sentire le nuove songs suonare così schizzate, veloci, storte e dissonanti, m’aveva fatto ben sperare e, comunque, attualmente, do un buon valore alla loro ultima prova discografica; però, adesso e, soprattutto, dopo il live del 20 aprile, sento di dovere ridimensionare il tutto.
Devo ammettere che, dopo lo show pazzesco dei Cattle Decapitation, ero talmente esaltato ed inebetito che sarei potuto tranquillamente tornarmene a casa, visto l’alto livello entusiastico, emotivo e tecnico-musicale raggiunto: evidentemente, però, non ero il solo a pensarla così all’interno del Rock’n’Roll Arena.
I Cryptopsy hanno fatto uno show egregio, esecutivamente inattaccabile, con dei bei suoni, rabbioso e pieno d’energia… ma hanno avuto la sfiga di suonare (sono troppo di parte?) dopo il gruppo estremo più caldo del momento. Il pubblico era sì attento, ma la partecipazione ed il calore non hanno raggiunto neanche la metà rispetto a quanto succedeva quando i quattro matti da San Diego occupavano il palco. Il buon Matt McGachy, l’eletto selezionato dal padre-padrone Flo Mounier quale erede di Lord Worm, ce l’ha messa tutta per coinvolgere i kids sotto il palco, ma, senza nulla togliere al suo talento, dopo il carisma dei veterani Bill Robinson e Travis Ryan, sembrava proprio l’ultimo arrivato; a rincarare la dose, s’è messa l’assenza del talentuoso axeman Levasseur, che tutti speravano di vedere dal vivo, nonché una setlist incentrata sugli ultimi lavori (c’è stato spazio pure per il singolone “Worship Your Demons”… brrr!).
Fortunatamente gli animi hanno iniziato a scaldarsi quando, alla fine della performance, i canadesi ci hanno regalato prima un inedito (tra l’altro, annuncio shock: il prossimo album dei Cryptopsy uscirà autoprodotto, a quanto il cantante ha detto dal palco), poi un medley con parti prese da Blasphemy Made Flesh: da quel momento (neanche dieci minuti in tutto!) è stato come se un’altra band fosse salita sul palco; il pubblico s’è svegliato dal torpore e il pogo è dilagato. Terminato il tutto, i Nostri hanno salutato, lasciando l’amaro in bocca a molti.
Ovviamente, spontaneo, è scappato il coro di “We want more!” e i quattro gigioni se ne son tornati, sorridenti e ruffiani, sulla scena, accolti dagli applausi. Un minuto di silenzio ed atmosfere e sbàm… s’è scatenato l’inferno: “Slit Your Guts”, “Graves of the Fathers” e “Phobophile” (sulla quale è scattato un tifo davvero da stadio, fin dalle note della nota intro in pianoforte). Per chi scrive, adrenalina, emozioni e ricordi adolescenziali a mille – per me, tutt’oggi, forse perché li ho conosciuti così, i Cryptopsy sono quelli di None So Vile, sono QUEL disco! –; sì, una reazione emotiva decisamente lontana dal “trip” causato dai Cattle Decapitation, ma ugualmente intensa e genuina.
Lasciando come appunto d’appendice la speranza che i canadesi trovino, finalmente, un’identità degna di tale (e del loro) nome, non posso che essere felice per questo live: tanti i sentimenti, i contrasti emotivi, le considerazioni, ma, soprattutto, il coinvolgimento di fronte alla materia messa in mostra il 20 aprile, tali da avere reso l’evento qualcosa di unico e memorabile. Dieci più.