(Pelagic Records, 2012)
01. Bridge & Tunnel
02. Daddy Wronglegs
03. Bopsky
04. Illegal Women
05. Delphonika
06. The Wonder Years
07. Othermother
08. Exploding Baby
Portrait dei Family è un disco che sembra essere stato concepito apposta per mettere in difficoltà noi “poveri” recensori: un coacervo di generi, citazioni, influenze che inizialmente può lasciare un po’ spiazzati, ma alla lunga fa emergere una certa eleganza e capacità compositiva. Combo di recente formazione, composto per metà da newyorkesi e per metà da sudisti doc, i Family mischiano identità geografiche e piani temporali, pescando soprattutto da un certo noise rock di novantiana memoria (le costruzioni spigolose degli Helmet, la ruvidità degli Unsane e il marciume dei Craw) e aggiungendo alla miscela echi di metal contemporaneo (gli ultimi Baroness) e tentazioni vintage (la Pelagic sul suo sito li paragona, in maniera un po’ ardita, a Led Zeppelin e Thin Lizzy). E’ hardcore in senso lato, sperimentazione intrigante e moderna, tipicamente americana e collocabile nel solco di quanto già concepito e sviluppato da Shellac e compagnia parecchi anni fa. La tedesca Pelagic Records (che fa capo a Robin Staps dei The Ocean) li ha scoperti e, dimostrando una certa lungimiranza, li ha subito fatti suoi: Portrait è il primo risultato di questa unione, e fra alti e bassi qualcosa di interessante esce fuori, eccome.
Sin dai primi secondi è chiaro dove si andrà a parare: “Bridge and Tunnel” è una colata di noise sbilenco e carico di groove, con quei riff che colpiscono come la peggiore delle emicranie. È subito ben evidente quello che sarà il leit motif dell’intero album: Portrait si regge quasi interamente su un lavoro chitarristico fluido e variegato, che non si ripiega mai su se stesso, preferendo uscire per un attimo dal seminato piuttosto che ripetere le stesse soluzioni (e non sarà un caso se Joshua Lozano suona anche nei Cobalt e con Jarboe!). “Daddy Wronglegs” porta con sé rallentamenti sludgy e atmosfere sulfuree, arricchite in “Bopsky” da riff liquidi e trame melodiche che si stagliano su muri sonori impenetrabili. E di qui il disco si dipana, prima trasformandosi nel mathcore sinuoso un po’ à la Keelhaul, un po’ à la Don Caballero di “Illegal Woman”, per poi evolversi in un inquietante pachiderma prog-sludge (“Delphonika); agli ultimi tre pezzi è lasciato l’onere di chiudere il disco in bellezza, ed è qui che i Family sorprendono, recuperando la psichedelia anni ’70 (“The Wonder Years”), istanze progressive e in generale strutture free-form che altro non fanno se non esaltare ulteriormente il gusto e la raffinatezza dei due chitarristi.
Che sorpresa, questi Family. Portrait è un album che vive un po’ di alti e bassi – convincente all’inizio e alla fine, un po’ ripetitivo e lacunoso nella fase centrale – ma non spara quasi mai a salve: niente di rivoluzionario, sia chiaro, però sa divertire come poche altre uscite ascoltate quest’anno. I Family hanno personalità ed inventiva, e col tempo possono solo migliorare. Io li terrei d’occhio.
7.0