(Nuclear Blast, 2013)
1. Kingborn
2. Minotaur (Wrath Of Poseidon)
3. Elegy
4. Towards The Sun
5. Warpledge
6. Pathfinder
7. The Fall Of Asterion
8. Prologue
9. Epilogue
10. Under Black Sails
11. Labyrinth
Di ritorno da un ciclo di tournée durato ben due anni, durante i quali hanno promosso la precedente uscita The Agony condividendo il palco con molti grandi nomi della scena mondiale, i Fleshgod Apocalypse si gettano a capofitto nella composizione di un nuovo album, il terzo della loro carriera nonché seconda uscita ufficiale per Nuclear Blast Records.
The Agony aveva rappresentato una svolta per il gruppo italiano, che proprio in quell’occasione aveva ampliato ed arricchito la componente sinfonica della propria proposta, rilasciando così un lavoro meno guitar-oriented e ritmico rispetto all’ottimo debut album Oracles. Labyrinth, dove possibile, cerca ulteriormente di aggiustare il tiro, andando anzitutto a coprire le pecche in fase di mixing dell’album precedente, nel quale le chitarre risultavano eccessivamente schiacciate dalla mole immensa di strumenti presenti: stavolta invece il basso e soprattutto le chitarre riacquistano presenza e corpo in quantità, riuscendo quindi nella difficile impresa di unire l’impatto brutale dei pezzi degli esordi alla maestosità e complessità dei brani appartenenti al recente passato. Oltre a questo, Labyrinth presenta tutte le caratteristiche necessarie per poter parlare di evoluzione artistica all’interno di un gruppo: fin dalle prime battute, infatti, oltre alle oramai tipiche e riconoscibilissime scale e progressioni dei Nostri, si percepisce un’atmosfera diversa, un parziale abbandono della furia che caratterizzava The Agony in favore di soluzioni più dilatate, contemplative e ragionate. Il lavoro di Francesco Ferrini al pianoforte e alle orchestrazioni è più coeso al riffing della coppia Riccardi-Trionfera, che dal canto loro non soffocano i momenti più ariosi delle composizioni, che vanno così a raggiungere in alcuni momenti picchi di tragicità, nel senso letterale del termine, davvero impressionanti. Completamente diverso è anche l’approccio di Francesco Paoli dietro le pelli, che in linea con il cambiamento generale del gruppo, ridimensiona di molto l’utilizzo del blast beat, tempo principe in The Agony, valorizza l’uso di midtempos e partiture comunque virtuose ma spesso votate più all’esaltazione delle atmosfere che non alla velocità cieca come in passato.
“Kingborn” e “Minotaur”, i primi pezzi in scaletta, nonostante le innovazioni dette fin’ora risultano due pezzi belli e coinvolgenti, ancora però abbastanza legati alle soluzioni per le quali il gruppo ha fatto tanto parlare di sé: la prima, ad esempio, dopo un’intro molto epica e solenne, si scatena prima in un blast beat liberatorio, e poi in un interessantissimo tema musicale sviluppato dal pianoforte di Ferrini, su cui il resto della band intesse una fitta trama di fraseggi chitarristici, pattern ritmici molto corposi e la voce rabbiosa e profonda di Riccardi, che spesso nel corso del platter, si alterna ad una voce femminile che, seguendo il concept dell’album, rappresenta la voce femminile della figura di Arianna. Le tematiche, infatti, ruotano tutte intorno al mito di Teseo e il Minotauro, scelto dalla band come metafora della continua ricerca di sé stessi, insita intimamente nell’animo di ogni essere umano: continua quindi è l’attenzione dedicata dai Fleshgod Apocalypse alle diverse sfaccettature dell’anima, dell’essere umano e dei meccanismi psicologici che sottendono alla sua personalità. In questa ottica, Teseo rappresenta il personaggio positivo, l’eroe che si fa carico del proprio passato e delle proprie discendenze per espiare le colpe del padre, mentre il Minotauro incarna le paure che ognuno ha di scavare realmente nella propria interiorità, racchiuso in un labirinto che è metafora del difficile e spesso imprevisto percorso che ogni persona compie dentro di sé ed in rapporto con gli altri. Anche dal punto di vista concettuale e lirico, quindi, Labyrinth si presenta studiato in tutte le sue sezioni, senza lasciare niente al caso e racchiudendo il tutto in una composizione coerente e lineare. Tornando ai pezzi, “Elegy”, giustamente scelto come primo singolo dell’album, vive sia di momenti più canonici per i Fleshgod, sia di alcune, prime, trovate davvero innovative. Ma è con “Towards The Sun” che i Nostri giocano la carta della sperimentazione, confezionando il brano più imprevisto di tutti: l’impostazione vocale è interessante e mai sentita prima, una sorta di “voce dannata” declamata e un po’ ringhiata ci introduce nel cuore della composizione, mentre un motivo di pianoforte teso mantiene alto l’hype della song. Anche i cori e le incursioni operistiche sono oggi molto più curate rispetto a prima, e devo dire che apprezzo sinceramente il gran ridimensionamento che hanno subito le voci “strillate” ad opera di Paolo Rossi, bassista del gruppo: se nel disco precedente, infatti, esse risultavano invasive, troppo presenti e anche un po’ di cattivo gusto, oggi fanno capolino solamente in momenti sporadici, e nemmeno in tutte le canzoni, andando realmente ad impreziosire le composizioni. Ad ogni modo, da metà in poi “Toward The Sun” risulta all’orecchio un tripudio sonoro notevole, con un bell’assolo di chitarra e degli acuti femminili molto suggestivi. Anche “Pathfinder”, la canzone centrale dell’album, mostra con orgoglio i semi dell’innovazione e del progresso: basata su velocità insolite per il gruppo, abituato a viaggiare su bpm molto più elevati, “costringe” Paoli a modificare appunto il suo drumming, mentre il riff iniziale potrebbe quasi richiamare alla mente certe note trame power metal (!!), ovviamente declinate in pieno stile Fleshgod Apocalypse. “The Fall Of Asterion” torna a picchiare duro, e dopo la breve pausa acustica di “Prologue”, la successiva “Epilogue” rallenta nuovamente il ritmo, proponendo un motivo davvero bello, grave e maestoso, probabilmente il più solenne presente sul disco.
Nonostante le novità, il combo nostrano è ben attento a non spezzare i legami con i lavori precedenti e proprio come in questi, decide di mettere in penultima posizione “Under Black Sails”, un brano feroce e velocissimo, che, introdotto da dei minacciosi suoni di percussioni, torna in grande stile al blast beat, e dopo una virata centrale con assolo, torna ad annichilire fino al finale. Spetta alla titletrack, posta in chiusura, tirare le file di questo album iper-farcito, e si decide di farlo nella maniera più naturale possibile: uno splendido giro di piano ad opera ancora una volta di Ferrini, ci conduce tristemente all’epilogo, quello vero, di Labyrinth, sottolineando, se ce ne fosse ancora bisogno, l’enorme apporto che questo compositore ha portato nel suono complessivo della band. Come detto, alcuni angoli sono stati smussati in fase compositiva, rendendo il nuovo album meno aggressivo, sicuramente meno immediato: di primo acchito questo si traduce in un ascolto se volete più pesante e difficoltoso, richiedente molta pazienza e soprattutto attenzione. Alla lunga, però, il fascino di Labyrinth si mostrerà in tutta la sua completezza, permettendo non solo di ricordarsi bene le singole canzoni, ma di scoprire di volta in volta nuovi elementi, andando ad aumentare di molto la longevità dell’opera.
7.5