1. My Bones To The Sea
2. Jhator
3. Homecoming Denied
4. 69 Dead Birds For Utoya
5. Parting
6. Burning From Both Ends
7. Panoptycon
8. Nailgarden
9. Gallows (Give’ Em Rope)
10. Mad World
Band formatasi nel 2011 a Vienna e comprendente solo due membri, gli Harakiri For The Sky propongono un black metal / post rock interessante. Sotto l’Art of Propaganda fin dagli esordi, con la quale pubblicarono l’album omonimo (2011), Matthias Sollak e Y.Wahtraum ritornano con il nuovo Aokigahara, avvalendosi questa volta anche di diverse collaborazioni, come Torsten (Agrypnie), Eklatanz (Heretoir), Seuche (Fäulnis) e Cristiano (Whiskey Ritual).
Il concetto della morte, o meglio, del passaggio da un mondo all’altro, è un argomento caro al duo (basti vedere il nome), attingendo dalle tradizioni orientali e creandone un’apologia introspettiva, nella quale non è tanto il suono a rendere un’atmosfera angosciante, quanto più i testi, vere e proprie descrizioni visive. Vagamente rimandante ai primi Alcest, è “My Bones to the Sea” ad aprire il disco: un’introduzione lieve basata sulla melodia e su un piacevole intreccio tra voce e parte strumentale, con una batteria che nonostante la sua onnipresenza non tende mai ad essere invasiva. Sulla stessa linea d’onda anche “Parting” e “Nailgarden”, con il medesimo andamento che confluisce nella triade di strumenti perfettamente incastonati ed accompagnati da una voce incapace di stancare.
Lo Jhator (da cui prende nome la seconda traccia), o Sepoltura Celeste è invece un rito funebre tibetano, nel quale il defunto viene scuoiato e lasciato in pasto agli avvoltoi: in questo modo il corpo materiale assume un’ultima connotazione di dono verso la Natura. In “Homecoming Denied” (estratto come singolo) invece, che si avvale della partecipazione di Seuche (Fäulnis), gli strumenti paiono scrosciarsi da un’altura ed evaporare nell’aria come una cascata. In effetti, le canzoni che presentano tutte le diverse collaborazioni citate precedentemente, dimostrano di essere scelte veramente azzeccate (salvo forse per la non pienamente convincente “69 Dead Birds For Utoya”, narrante la vicenda di Anders Breivik, che nell’estate 2011 travestito da poliziotto aprì il fuoco su una colonia sull’isola di Utoya). In “Burning From Both Ends”, tramite un tocco flebile, le corde paiono essere pizzicate, per poi discendere bruscamente sino a trasformarsi in un suono roccioso grazie alla batteria che sostiene il tutto, cosa che non accade in “Panoptycon”, dove le dissonanze black si rendono udibili fin dall’inizio. La concludente “Gallows (Give ‘em Rope)”, proprio come un ultimo atto d’esasperazione, vuole esalare ultimo grido d’esasperazione, rimanendo invece una traccia anonima.
I giapponesi chiamano Komorebi l’effetto particolare della luce del sole quando filtra attraverso le foglie degli alberi; con questo secondo lavoro, i viennesi in questione sembrano adottarne il significato. Mi ritrovo però a fare una nota negativa inerente al concept, il quale se avesse seguito un andamento organico avrebbe potuto rivelarsi maggiormente interessante, ma che in questa forma si riduce ad una sorta di percorso a episodi frammentati solo per far titolo.
7.5