Da circa un decennio, scorrendo fra le varie release riguardanti il metal estremo, sembra esservi ormai una certezza. Ogni due anni, puntuali come un orologio svizzero (o, forse, tedesco), gli Heaven Shall Burn fanno uscire un disco. Sì, ci sono di mezzo piacevoli intermezzi fatti di split albums (come quelli con i compatrioti Caliban), compilations (che li hanno visti, fra le altre cose, accorpati a band del calibro di Napalm Death), DVD live ed altro. Tuttavia, con questo “Invictus” siamo arrivati alla sesta uscita sulla lunga distanza, e manco a dirlo il tiro non si è spostato di una virgola.
Granitica, tanto quanto il genere musicale dei cinque tedeschi, è anche la consuetudine di inserire intro ed outro nei propri album. Brani d’atmosfera che si rifanno al classicismo musicale, e che contribuiscono a porre l’ascoltatore nella giusta dimensione. E così, dopo un inizio soft, si scatena il solito inferno. Per chi li ascolta da diversi anni, non esiste modo di confonderli con nessun altro. Anche questa volta, il cantato è unicamente in screaming, senza alcuno spazio per inserimenti melodici, ed il singolo, “The Omen”, è posto direttamente in apertura all’album.
Se il punto forte dell’album è indubbiamente la capacità di creare riff di chitarra ben congegnati e sempre legati al tema principale della canzone (come è per “Buried in Forgotten Grounds”, o per “Sevastopol”), si nota tuttavia una certa monotonia di fondo. Dopo cinque album, risulta veramente difficile insistere sugli stessi temi, per quanto cari al sottoscritto e indubbiamente di rilevanza sociale. Pare di sentire continuamente gli stessi appelli unitari (quello che nel recente passato era “We are the final resistance” ora è diventato “We’re not afraid to die”, e compagnia bella). Gli spazi per un rinnovamento, anche dal punto di vista musicale, sono veramente pochi, e si rischia così di ricadere in qualcosa di già sentito. Sensazione quantomai presente nell’ambito del metal estremo moderno, e piuttosto preoccupante se il suddetto “già sentito” deriva dalla stessa band, mai in grado di spostare i propri orizzonti.
Guardiamoci in faccia: che cosa differenzia una delle tracce presa a caso da questo disco da tante altre presenti in altrettanti album di questa per lo più sciagurata decade di (death) metal? Possono bastare un paio di buoni spunti, o l’idea di stravolgere (legittimamente) in chiave estrema una canzone come “Nowhere” (cover dei Therapy?) per salvare l’album dall’accetta del recensore di turno (nonché da quela dell’ascoltatore abituale)? E perché i pochi spunti di sperimentazione sono rilegati alla sola parte finale dell’album, con una collaborazione con alcuni membri dei compatrioti Deadflock la quale pur non eccellendo ha se non altro il pregio di risollevare un minimo le sorti di un genere stantio? Insomma, quanti di questi 50 minuti di musica si salveranno dall’ombra creata dal prossimo album?
In uno scenario di crisi creativa dell’industria musicale, sia a livello intellettuale che per quanto riguarda le strategie di marketing, mi sovvengono le parole del produttore musicale Rick Rubin, il quale già nel 2007 affermava: “Gli artisti devono scrivere canzoni che durino negli anni, non canzoni per un album”. Ecco, spiegatelo anche agli Heaven Shall Burn.
P.s. prima di passare ad altro, date un’occhiata al divertente trailer alternativo per la presentazione dell’album:
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Voto: 5