01. Pleasure Center
02. Tumescence
03. Pinniped
04. Dangling Modifiers
05. Heavy Worm Burden
06. Crystal Gale
07. New West
08. Fetus. Carcass.
09. Slow Beef
10. Animatronic Bionic
11. Dodge The Lightning
Seattle e il grunge, quanti ricordi. I capelli lunghi e i brufoli, le camicie di flanella e gli anfibi comprati al mercato, quelli che oltre a chiazzarti irreparabilmente l’onnipresente calzino di spugna bianco ti facevano venire le piaghe dopo una passeggiata di dieci minuti. Quanti dispiaceri abbiamo recato alle nostre madri solo per somigliare un po’ a quegli eroi d’oltreoceano che vedevamo oscillare pallidi ed emaciati davanti alle telecamere negli speciali di Mtv, e quante risate si son fatti i nostri compagni di classe fighetti, che invece di arrovellarsi su come sembrare degli straccioni si dedicavano allo sport e alle ragazze già sapendo come girava il mondo? Ma poi chi c’è mai stato a Seattle? L’unico ponte immaginario che si percorreva per raggiungere ogni giorno la mecca del rock prima dell’era-ADSL si chiamava Atlante Musicale Giunti, la bibbia per gli sfigati che s’erano persi tutta la scena per questioni anagrafiche o perché nessuno li aveva portati al ‘Delle Alpi’ o a Roma quando s’era presentata l’occasione, e non avevano avuto altre chance per recuperare.
Oggi tutto questo non c’è più: il grunge non esiste più, posto che sia mai esistito e non fosse solo una parola per etichettare un fenomeno e renderlo commerciabile, Mtv è un vuoto contenitore di programmi per pubescenti lobotomizzati, e Internet ha spianato gli ostacoli che un tempo ci sembravano insormontabili riducendo le nostre brame di sapere ad un semplice click. Persino i profeti di quegli anni sono mezzi morti, mezzi votatisi all’ippica, mezzi diventati afoni. La Seattle degli anni zero è diversa: i Nirvana sono solo un vago profumo nell’aria per chi quegli anni d’oro li aveva vissuti in prima persona o da adolescente alle prese con i mille problemi dell’età, e gli ultimi dinosauri del grunge – i pochi che non hanno finito con l’estinguersi – hanno cambiato muta, alcuni in malo modo, per sopravvivere alle terribili glaciazioni post iTunes e Facebook. Il ragazzino con la t-shirt in seconda superiore non fa più testo oramai: l’infatuazione per gli idoli del rock trasmessa come un morbo dai fratelli maggiori o dagli amici del bar – quelli che i genitori definivano ‘poco raccomandabili’ – è sempre stata passeggera, una scivolata sul luogo comune che per fortuna però ha aiutato a crescere molti di noi, costituendo una tappa fondamentale dell’adolescenza di ogni alternativo medio che si rispetti. Cosa resta dunque di tutto quell’hype? Poco o niente verrebbe da dire. O forse no.
Gli Helms Alee arrivano dal capoluogo dello stato di Washington, e come molti altri sono figli del loro tempo. A vederli non si direbbe siano passati vent’anni dalla morte di Cobain. C’è il capello lungo, la t-shirt d’ordinanza e pure la camicia di flanella. Ma niente paura, non si tratta dei Nickelback: la musica che suonano non è per niente scontata come uno potrebbe immaginare a giudicare dal loro aspetto. Sleepwalking Sailors è il loro terzo parto sulla lunga distanza e pur non essendo un album di primo pelo rispetto agli esordi conserva ancora quella carica distruttiva ma sempre ricca di melodia che da più di un lustro è sigillo di garanzia del trio. La ricetta è vecchia ma rivisitata con certo savoir faire comune a pochi: su una sezione ritmica serrata ed essenziale la chitarra ricama arpeggi sognanti alternati a riffoni fuzzosi con stacchi in perfetta soluzione di continuità e grandi escursioni in materia di dinamica. Notevole è anche e soprattutto il lavoro delle voci: prima non l’ho detto, ma gli Helms Alee sono per 2/3 al femminile e non c’è davvero niente di meglio che sentire la pregevole voce della batterista Hozoji Margullis far da contrappunto melodico a quella assai meno addomesticata del chitarrista Ben Verellen. Negli undici brani che costituiscono l’album si sente di tutto. Ci sono le soluzioni melodiche di The Breeders e i martellamenti dei Tad, la potenza evocativa degli Alice In Chains post-Dirt, dei Soundgarden di “Jesus Christ Pose” (nei trenta secondi conclusivi di “Dodge The Lightning”) e addirittura un retrogusto chitarristico tra Smiths e My Bloody Valentine nella prima parte di “New West” e in generale su molti altri pezzi, eppure niente di tutto ciò può essere usato per descrivere appieno il trio di Seattle, perché gli Helms Alee sembrano brillare di luce propria.
Ora l’alternativo medio non è più lo sfigato di un tempo, l’escluso, il misfit di turno. Ben Verellen è uno che sa il fatto suo. Alle spalle ha un passato da peso massimo del post hc trascorso a menare duro con gli Harkonen, e un presente fatto di amplificatori valvolari da lui progettati e costruiti a mano e apprezzati in mezzo mondo (fate una ricerca su internet e vi farete un parere a riguardo). I nipoti (legittimi o illegittimi) del grunge sono maturi e consapevoli e hanno saputo portare sulle spalle un’eredità pesante sciacquandola con quanto più sia venuto loro sottomano negli ultimi vent’anni: derive sperimentali ma anche tanto hardcore e indie-rock in primis. Il risultato che ascolto ora è un disco bello, anche se un gradino sotto a Weatherhead, il loro secondo, più vario negli umori e più dinamico. Forse tra i due album Sleepwalking Sailors è quello leggermente più propenso allo sfogo violento, ma – cosa pregevole – la violenza non è mai gratuita o fine a se stessa (la bellissima “Slow Beef” e la tellurica “Animatronic Bionic” costituiscono ottimi esempi a riguardo: semplicità e gusto a mo’ di ago della bilancia tra pesantezza e melodia). Gli arrangiamenti sono curati nei minimi dettagli: anche quando si urla a squarciagola le linee vocali sembrano inneggiare a qualcosa di tutto sommato lirico e struggente senza mai risultare patetiche (soffermatevi sulla brevissima “Crystal Gale” e capirete).
Siamo di fronte al fatidico passaggio del testimone da una generazione di rockers rumorosi ad un’altra – o forse c’è già stato e ce lo siamo perso? – ma stavolta non ci sono più i riflettori e le telecamere ad inquadrare il gesto e a trasmetterlo in mondovisione, e penso che sia addirittura meglio così. Gli Helms Alee sono gli alfieri di uno stile e di un’attitudine genuina, fatta di gavetta e di sudore, nuovi paladini di un nordovest sotterraneo che senza far tanto scalpore (ma con tanto rumore) negli anni ha partorito band toste come Botch, Karp, Harkonen e Narrows, più tendenti alla melodia come These Arms Are Snakes e Minus The Bear, ma anche intimiste come The Microphones e Mount Eerie. C’è ancora da sperare in bene, quindi: sarà l’aria carica di pioggia che tira da quelle parti? In un’epoca di rari capolavori, scoprire gruppi e dischi come questo fa di nuovo battere forte il cuore.
8.0