(Hydra Head Records, 2012)
1. Broken Ground
2. Silent Temple
3. Red Bough
4. Corridor
5. Awful Feast
6. Beggar’s Hand
Per quasi vent’anni la Hydra Head di Aaron Turner è stata un punto di riferimento per l’underground musicale mondiale, assumendo talvolta la forma di una sorta di “circolo chiuso” in cui musicisti particolarmente dotati si sono dilettati nel martoriare le orecchie o far viaggiare le menti di tantissimi ascoltatori di tutto il mondo. Spesso si trovano facce note anche nei progetti più recenti, e questo è il caso dei Jodis, che con la pubblicazione di questo loro secondo album Black Curtain segnano anche la triste fine della storica etichetta, obbligata a chiudere per problemi economici.
Dietro a questo nome si celano essenzialmente le menti di James Plotkin (Khanate, OLD, Scorn, nonché produttore di livello) e Aaron Turner, oltre che Tim Wyskida dietro le pelli. I Jodis fanno un post-rock / ambient essenziale e minimale, fatto di atmosfere angeliche e sognanti: il risultato si avvicina a molte cose dei Nadja (soprattutto la collaborazione coi Pyramids), agli Angelic Process, agli Jesu meno opprimenti ma anche a formazioni di tutt’altro tipo come i Dead Can Dance. Evidentissimo in particolare il rimando per quanto riguarda la parte vocale, sulla quale Turner si focalizza totalmente lasciando la costruzione strumentale interamente a Plotkin, che traccia linee sonore perennemente “in sospeso”, lasciate spesso a oscillare in un piacevole vuoto silenzioso. Tutto il disco vive di una continua sensazione di attesa, ma i Jodis riescono comunque a non annoiare grazie al carisma palpabile di questi musicisti, che pur suonando così lentamente sono capaci di mantenere sempre alta l’attenzione, anche quando si ripetono: ad esempio la conclusiva “Beggar’s Hand” riprende il tema portante di “Red Bough”, irrobustendolo e andando a formare l’unico pezzo in cui Plotkin si lascia andare un po’ di più al noise, mentre il resto del disco è tutto fuorché pesante, solo minimale e spesso etereo.
Dicevamo delle voci di Turner: qui il poliedrico Aaron si dedica totalmente al cantato in pulito, mostrandosi pure molto a suo agio (ma già negli ultimi Isis s’intravedeva la sua consapevolezza di poter essere anche un cantante e non solo un urlatore). Tutto l’album si fonda sui suoi vocalizzi continui e stratificati, spesso anche in loop, che vanno a creare una sensazione di canto corale che rende il tutto estremamente “angelico”. “Sognante” è ancora una volta la parola giusta per definire il cantato di Turner, che non risulta mai troppo emotivo ma anzi quasi impersonale (non per questo però freddo).
Black Curtain è il classico disco che ha bisogno del momento giusto e dell’umore giusto per essere ascoltato, perché nel suo minimalismo sonoro così accentuato è anche fortemente comunicativo e interiore, qualsiasi cosa possa voler dire ciò in un caso come questo. Quel che è certo è che l’accoppiata Plotkin/Turner ci ha offerto l’ennesimo disco di pregevole fattura, un album che andremo spesso a cercare nel nostro scaffale per apprezzare nuovamente il bellissimo artwork (a cura di Faith Coloccia, sempre per la serie “tutto in famiglia”) e la profondità lirica di un’opera di grande delicatezza.
7.0