Una delle tendenze più comuni fra i musicisti già “rodati”, non più esordienti, è costituita dal ricordare i “bei tempi che furono”. Tentando di riviverli si cerca di dimostrare una credibilità di fondo che, molte volte, è in realtà svanita. Piegata dal successo, o più semplicemente dall’età. I proclami alla “siamo tornati”, “è come i nostri primi dischi” e auto-celebrazioni sui generis si sprecano. I Korn, al nono album in studio, cercano questo collegamento al passato sin dal vero e proprio titolo: “Remember Who You Are”, forse tentando di oscurare ai più alcuni fatti innegabili. 1) Sono passati sedici anni, otto album, tre live, due greatest hits, una ventina di singoli e altrettanti dischi di platino dal debutto ufficiale della band. 2) Se i Korn degli esordi erano cinque ragazzi provenienti da alcune fra le più disagiate situazioni della piccola cittadina di Bakersfield, California, oggi stiamo parlando di tre quarantenni multimiliardari che (seppur meritatamente) producono musica per teenagers o poco più. Non esattamente la posizione migliore dal quale suonare disperati e denunciare al mondo le pene dei propri problemi personali. Lo stesso ragionamento potrebbe ovviamente valere per tante altre band tornate alla ribalta o mai eclissatesi del tutto, ma tant’è.
Al nono album, dicevamo, i Korn propongono un disco che è effettivamente riconoscibile sin dalle prime note come stilisticamente vicino ai propri standard. L’album è costituito da undici pezzi (di cui un intro), e a farla da padrone è il solito alternare di voce –strascicata e lamentosa, come solo Davis ci ha abituato ad ascoltare– e basso, sempre pronto ad accorrere in aiuto della sezione ritmica. Se sin dalle prime note si riconoscono le menti dietro agli strumenti, è anche vero però che l’album è mediamente più lento rispetto a quanto la band era solita fare. Colpa (?) di una batteria non certo al 100%, che si limita a svolgere il proprio compito senza strafare: in altre parole, Ray Luzier non risulta centrale quanto lo era Silveira. Accompagna, senza mai spiccare. Con questo non si vuol certamente discutere la tecnica, quanto più il background cultural-musicale dei due batteristi. Come nello stile dei Korn, il rallentamento dei ritmi fa calare la solita cupezza sulle composizioni. Manca tuttavia il singolo in grado di trascinare l’album (come poteva essere “Here to Stay” per Untouchables, o “Y’All Want a Single” per il successivo Take a Look in the Mirror”). Mancano i riff ispirati e convincenti, spesso sommersi dagli strabordanti bassi. Manca il mordente in brani che sembrano scritti quasi per scorrere sul disco, come un sottofondo, anziché mantenere alta l’attenzione dell’ascoltatore. Il lavoro di scrittura dei testi, infine, è piuttosto banale e certamente non ci si aspetterebbero le solite menate pseudo-paranoiche da una band del genere. Paradossalmente, è proprio il brano meno “alla Korn”, ossia la conclusiva “Holding All These Lies”, quello più convincente del disco sotto il profilo della struttura, proprio perché in grado di muovere un attimo il generale piattume grazie a cori riusciti e ad un inaspettato assolo.
Una traccia, tuttavia, non rivoluziona un intero disco, che risulta come niente di più di un album nella media, per una band che senza infamia né lode continua a portare a casa la propria pagnotta, campando come molti altri della fama acquisita negli anni. E perdonate se un Jonathan Davis che strilla “Leave me alone!” risulta, a questo punto, un po’ fuori luogo.
Voto: 5